Il sasso e il silenzio

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Due vecchi, a cui l’età si dice avesse dato la somiglianza dei gemelli, stavano seduti tutto il giorno su una panchina di pietra contro il muro della chiesa di san Valentino, a Panchià. Forse è solo una leggenda, di chissà quanto tempo fa; forse due vecchi così non ci sono mai stati, ma Panchià, con quella chiesa, esiste davvero: è un villaggio grazioso, ai piedi del Cornòn, di fronte alla catena del Lagorai. Quei due vecchi, dicevo, stavano seduti tutto il giorno, e d’estate anche la sera, col bastone fra le gambe, guardando ogni tanto il sole per indovinar l’ora e chiacchierando coi bambini del paese, sereni e innocenti come loro. Intorno era il silenzio sonnolento della valle, appena scalfito dal rumore del rio Bianco e di qualche carretto che passava sulla vecchia strada di Fiemme; tutt’al più, alle volte, il vento portava fin lì il rintocco del campanile di Tesero, o faceva frusciare tra loro i rami dei larici, alti sui muri del convento, di fianco al cimitero.

I vecchi sapevano un’infinità di storie e le raccontavano lenti, soppesando le parole, come per stanchezza, e fermandosi ogni tanto a pensarci su. Storie di tanti anni prima, di gente morta da un pezzo, della loro valle; tristi, spesso, e raccontate così, più per se stessi che per chi li stava a sentire. A intervalli sospiravano, si guardavano negli occhi, con complicità, quasi a incoraggiarsi a continuare, e quando avevano finito si faceva sempre silenzio, anche tra quelli che non avevano capito bene. Poi la gente se ne andava e loro restavano da soli, come forse erano sempre stati, a ricordare altre leggende e ad annuire tra sé, di approvazione.

Quei vecchi sono morti, se mai sono esistiti, ma le loro storie no. Hanno continuato a vagare, da sole, nel silenzio degli anni, affiorando ogni tanto dalla mente di qualcuno, sempre uguali e sempre un po’ diverse. Come le favole dei cantastorie o le tradizioni di famiglia. O come quelle leggende che non sono scritte da nessuna parte ma che tutti sanno, in un villaggio. Una, in particolare, mi ha colpito molto; fin da quando me l’hanno raccontata, da bambino.

 

C’era un uomo, a Tesero, molto tempo fa: uno dei tanti, un arrotino, povero e senza amici. Aveva al mondo solo sua madre, con cui viveva, e anche questa gli morì, sul finire dell’autunno. Allora, forzando la sua timidezza, decise di andare dal più ricco del paese, l’ultimo dei Firmian, a chieder qualcosa: la carità, un pezzo di pane; un lavoro, magari. Arrivò a casa sua che il conte usciva, finito il pranzo, in compagnia degli amici, caldi tutti del vino e delle sconcezze della conversazione. A testa bassa, confuso, sotto il portale di pietra che metteva soggezione, ascoltò la propria voce che chiedeva da mangiare. E poi quella del conte, divertita e superba.

“Toh, mangia!”

E le risate che scoppiavano intorno, come di ubriachi. E il conte che si chinava a raccoglier qualcosa, da terra; e il sasso che gli arrivò su una gota, non forte, no, quasi una carezza. E lui che lo raccoglieva, senza pensare, vergognoso. E poi la fuga, via di lì, lontano, col clamore delle voci nelle orecchie e il cuore che gli scoppiava. Perché no, non ci sarebbe più tornato, al suo paese.

 

Era un’altra vita, per lui, quella che cominciava; da emigrante. Di miseria, sì, ma in viaggio, adesso, senza un posto in cui fermarsi e metter radici; e poi l’elemosina, la compassione, di paese in paese; e forse anche il fastidio, negli altri, il disprezzo. E la solitudine, e il silenzio, sempre. Perché si lavorava poco e si camminava molto, in valle e in montagna, a far l’arrotino. L’Alto Adige e l’Austria. Braies e Toblach, San Candido e Arnbach; e più lontano, Sillian, Tessenberg. Giorni e giorni di strada, passato il confine, tra baite e masi, fontane e borgate, col campanile, la chiesa, qualche bottega e l’odore del legno, e del pane. Una stalla, un po’ di fieno, per dormire; e poi ancora in cammino, con la mola. Il vento che prendeva di petto; il profilo dei monti con dietro il cielo e basta; le piazze dei paesi, la domenica, coi giovani a sbirciar le ragazze, all’uscita dalla messa; il desiderio, e la tenerezza, di una donna. E dappertutto, al principio, il rossore, la vergogna: meno forte, però, del bisogno. E dappertutto quel sasso, che cambiava di posto, che gli pesava in tasca, che gli ammaccava la schiena, gli ricordava l’offesa, gli risvegliava il rancore. In silenzio.

Iniziava l’inverno, si doveva abituare. Quante volte gli avevano parlato di quelle valli, da bambino, gli emigranti che ritornavano. D’inverno i campi erano bianchi di brina, d’estate coperti di erba medica. Per Natale, poi, non c’era villaggio che non si riempisse di luci; nei più grossi, anzi, la strada principale si gonfiava di punti luminosi, che nella distanza andavano aggrumandosi ai due estremi del paese: e questo, già lo sapeva, gli avrebbe fatto venire un groppo in gola. Ma fu un inverno normale, dopotutto, che non lo uccise; come gli altri che seguirono. L’aria cominciava presto a farsi buia ma, alle volte, in cielo restava sospeso, almeno per un po’, un chiarore diffuso che invitava a continuare ancora, se non era stanco, finché ci si vedeva. Perché era triste camminare nel buio, anche se qualche volta lo faceva, pensando (per noia?) che fosse sempre meglio di quel grigio uniforme che d’inverno era la valle. La notte, poi, dormiva dove capitava, sulla paglia, in un fienile. E di notte, spesso, il vento spazzava la campagna, e la mattina i campi erano bianchi di brina, e c’era ghiaccio nei fossi e lungo i bordi, all’ombra, delle strade. Qualche carretto, più veloce, alzava folate di pulviscolo bianco e tutto tornava come prima. Le borgate lungo la strada, con gli alberi di Natale davanti alle case. La chiesa, il camposanto, una vecchia col bidone di latta per l’acqua e qualche fiore, anche col freddo. Un reticolo di rami, ogni tanto, a irretire il cielo; sul viso il rosso del gelo e in bocca la malinconia. Un tedio sordo e opaco, come quelle giornate. E il silenzio, ancora, intorno e nella mente. Prima che il cielo si sporcasse di nuvole, e la pioggia diventasse neve.

 

Era una vita segnata, la sua, senza avvenire. Eppure, anche così, aveva paura della morte, quando ci pensava, certe volte; in una terra che non era la sua. Anche se là dov’era nato non aveva più nessuno, di caro. Perché emigravan tutti, da lui; da quando esistevano quelle montagne. Perché l’anno è di dodici mesi, e la montagna nutriva tre mesi soli. Ma poi tornavan tutti d’emigrazione, era solo questione di tempo. Tornavano, e prendevano moglie, e una casa, al paese. Aveva detto bene uno, una volta: gli altri sono i paesi per dove si viaggia, il tuo è quello dove si rimane. E dove si torna, anche se è per morire.

 

Una volta, due o tre inverni dopo, una vedova gli diede un paio di scarponi quasi nuovi, del marito. Erano duri e rigidi, e all’inizio il bordo alto gli aveva segato il malleolo, perché non c’era abituato: ma era sempre meglio che patire il freddo con le scarpe di prima. Fu per via di quello, e dei piedi gonfi, che si fermò in un’osteria, la sera. Un posto piccolo, all’ingresso di Toblach, lo ricordava ancora: la porta a vetri illuminata, quattro uomini a giocare a carte, silenziosi, sotto la finestra, uno di loro che lasciava le carte coperte sul tavolo e lo raggiungeva al banco. Lo sguardo diffidente, quasi ostile, rinfrancato dal tintinnio dei soldi. Aveva chiesto una grappa, per scaldarsi, guardandosi i piedi a darsi coraggio, poi, sbirciando i giocatori, a disagio. Quello che vinceva sghignazzava, gli occhi lascivi, la bocca dalle labbra sottili. Un ricordo gli affiorò confuso, nella mente. Quella risata, altre risate, di scherno. Parlavano di Tesero, del suo paese, e poi del conte. Aveva ereditato, comprato altre terre; si era fidanzato con una del suo rango, di quelle parti lì, di Bruneck; anche bella, dicevano. A lui quella grappa era andata in veleno. Pagò con gli occhi bassi, alle prime imprecazioni, attento a controllare l’ansia; poi uscì. Fuori del paese, sul ponte, era troppo buio per poter vedere il fiume, che batteva di sotto contro i piloni. L’aveva sentito come non mai, in quel momento, nel silenzio del suo cuore, il freddo dell’invidia, del rancore. E aveva capito di odiarlo ancora, di averlo odiato sempre, con sincerità disperata.

 

Passarono gli inverni e le altre stagioni: passò anche un po’ della sua vita. Era sempre la primavera, nella sua pienezza, a ridargli un po’ di forza. La destra serrata sul bastone, che aveva cominciato a portare, un po’ a usar la mola, un po’ a chieder l’elemosina, continuava a incontrare la pietà e il disprezzo. Ma l’aria fresca sapeva di terra; i merli si posavano sull’erba bagnata e i vetri delle case scintillavano al sole, e c’era nell’aria più luce del solito. E quando alle volte, con l’occhio incantato, osservava il cielo o l’acqua della Drava, calma e serena, gli sembrava quasi che la felicità fosse cosa tanto facile, tanto semplice.

Ma erano attimi, impressioni. C’era sempre la fatica del giorno; la tristezza che lasciava il risveglio, nei silenzi di tante mattine. E poi la notte, per pensare alla vita, e imparare a capirla, un po’ di più. E quante cose aveva capito, davvero, camminando per le strade. Che il dolore non invecchia, ma galleggia nell’anima, senza mai andare a fondo. E che quando sei povero, la gente non vuol più saperne di te. E non per pudore, no, come dice, ma per avarizia di cuore. Perché è vero che non piace a nessuno appestarsi con le disgrazie degli altri. E, in verità, lui era solo, proprio come un appestato. Chissà se lo avrebbe mai accettato, se avrebbe mai capito di avere un privilegio che è di pochi.

Un giorno qualcosa cambiò la sua vita. Aveva incontrato un vecchio, prima di Arnbach: non ricco, di certo, ma pulito, distinto. Gli aveva teso la mano, e quello si era frugato nelle tasche, deciso a dar qualcosa. Ma non aveva trovato niente, tranne il fazzoletto, e allora aveva guardato lui che aspettava, la mano livida, tremante. Occhi stupiti, sinceri: non di disprezzo, come tanti altri, o tutt’al più di indifferenza. Aveva cercato di nuovo, ostinato, prima di rinunciare, a disagio. E prima di stringere, all’improvviso, la sua mano.

“Non ho niente. Scusa, fratello.”

Avrebbe potuto cambiare strada, senza guardarlo; o forse gettargli un sasso, come quell’altro. Invece lo aveva chiamato fratello. E questa parola non l’avrebbe dimenticata mai più.

 

Fu allora che gli crebbe dentro la voglia di tornare. Col senso del suo essere uomo, del rispetto di sé, che quella stretta di mano gli aveva risvegliato. Chissà se qualcuno si ricordava di lui, al suo paese. Nessuno è così solo da essere straniero agli altri, cominciò a dirsi, sempre più spesso. Il tempo si consuma, la gente si allontana, oppure cambia, dentro e fuori. Lui, però, il villaggio lo rammentava bene. Me ne sono andato per poter tornare, si scoprì a pensare, una volta; e forse era questo il senso del suo viaggio. Non puoi cambiare quel che sei, diceva a se stesso, altre volte; e se ci provi, c’è sempre qualcosa che ti riporta indietro. A saldare i conti con gli altri e con la vita. Come quel sasso che gli pesava in tasca, che gli ammaccava la schiena, da quando era partito.

Tornò che era autunno. Il cielo si stava aprendo, dopo una mattinata di pioggia, e lui poteva guardar giù dal colle di Stava. La valle si stendeva silenziosa, di lassù, in un silenzio infinito. Vedeva il guado e san Leonardo, fino alla Parrocchiale, e più in là l’Avisio, e il sentiero di Pontagia. Non c’era movimento per la strada, e anche i campi erano deserti. Tra il bruno della terra e il verde intenso delle viti scorse il capitel del Brustol, piccolo piccolo, e sospirò. Ci andava con sua madre da bambino, di domenica: a portar dei fiori, a dire una preghiera. Poi tornò a guardare il cielo, senza fretta, finché il grigio sul borgo svaporò in un bianco sporco. Non pioverà più, si disse, pratico; e cominciò a scendere.

Dentro il villaggio, l’odore era quello della terra bagnata, e del fumo dei camini dove la legna bruciava fin dal mattino. In giro, però, non c’era nessuno. Niente, a riempire il silenzio delle strade. Subito si sentì sollevato, poi sempre più inquieto. Possibile che fossero tutti a tavola, o a dare una mano alle donne? Ma no, c’era clamore da qualche parte; bastava solo seguire le voci. Era là in fondo che gridavano, in fondo alla strada principale, verso il palazzo che lui sapeva. Si fece avanti a guardare, un’ansia strana in gola. Di fronte al portale, monelli vocianti, gente che fischiava, che urlava insulti, e già qualche sasso nell’aria, e i gendarmi che parlavano piano, che lasciavano fare. E un vecchio dal viso rugoso, comparso dietro di lui, quasi parlasse a se stesso:

“Non ammassate tesori sulla terra, perché questa è iniquità e male grande. Ammassate invece tesori in cielo, dove tignola e ruggine non distruggono, dove i ladri non sfondano né rubano…”

Ne aveva accumulate di ricchezze, il conte; ma poi le aveva dissipate tutte, nei vizi, nel gioco, con le donne. Alla fine si era coperto di debiti, e ora i gendarmi lo portavano via. E lui era arrivato, era ancora in tempo. Si fece largo fra la gente, con le gambe che gli tremavano, col cuore che gli scoppiava; tirò fuori la pietra, stese il braccio, quasi avesse aspettato quel momento per tutta la vita. Ma all’improvviso un pensiero gli attraversò la mente.

“Perché? Adesso è lui il più infelice.”

Allora aprì la mano, e nella sua mente si fece silenzio, e in quel momento gli sembrò che il sasso se lo fosse tolto dal cuore.