Patuljak

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Il mio nome è Enis, ma tutti mi chiamano Patuljak, il nano. È così che mi conoscono nel villaggio dove sono nato: un grumo di case spazzate dal vento che corre ululando tra boschi di aceri e abeti scuri, una trappola per uomini braccati dalla povertà, dove anche una risata è un lusso che non ci si può permettere. Eppure, io ci provo; d’altronde, sono il primo a sorridere dello scherzo che la natura mi ha giocato. M’infilo un giaccone pesante e, come ogni mattina quando un chiarore ancora livido annuncia l’alba, esco. Cammino e ascolto i miei passi risuonare lungo strade vuote che custodiscono intatte le orme di chi fuggì da Srebrenica per raggiungere Tuzla. Cammino, ma è come se tutto si fosse fermato a quel giorno di ventisei anni fa.

  

La bottega, appartenuta al nonno e poi a mio padre, odora ancora di legno, resina e vernice, anche se da anni qui nessuno costruisce più violini. Anzi li crea, perché è questo che facevano il nonno e papà quando, picchiettando sul tronco degli aceri, sceglievano il legno che avrebbe fatto parlare i loro violini. I violini dei Mulavdic erano famosi in tutta la regione, ma compresi presto che quello non sarebbe stato il mio destino; i violini non mi avrebbero svelato il loro linguaggio. Quando il nonno morì, con la neve ancora alta nei canaloni tra le montagne, la bottega non faceva più affari come una volta; la gente faticava a racimolare soldi per sfamarsi e non pensava certo ad acquistare un violino che non riempiva la pancia. Ma mio padre non mollò: la stirpe dei Mulavdic liutai non si sarebbe estinta finché lui avrebbe aperto gli occhi la mattina. Non faceva affidamento su quel figlio che in altezza non arrivava neppure all’alzata, dove i violini dalle forme morbide e dai colori accesi, attendevano di essere riparati o consegnati ai committenti, per continuare la tradizione di famiglia. Quel figlio del quale, quando ne parlava con amici e conoscenti, non diceva mai il nome. Per lui sono sempre stato un pronome in terza persona, un essere che, sebbene generato da lui, doveva per forza appartenere a un’altra specie.

 

La chiave scivola senza fatica nella serratura del vecchio cancello in ferro battuto che separa la bottega dal cortile interno di quella che un tempo era la nostra abitazione. Sempre pieno di voci e odori, ora il cortile ha il respiro corto di un’attesa immobile dentro mucchi silenziosi di cemento e calcinacci. Dietro finestre sventrate come orbite di un teschio, fotografie di uomini baffuti e donne in abiti sgargianti, immagini della Kaaba(1) e ritratti di Madonne dal viso dolce scoloriscono alle pareti. Tutto è sospeso come se quelle persone dovessero fare ritorno da un momento all’altro, come se mia madre potesse ancora imbandire la tavola della domenica con cevapi(2) e una montagna di ustipci(3). Attraverso il cortile, camminando sulle poche pietre del lastricato non ancora coperte da erbacce, mentre un profumo di gelsomino mi pervade le narici. I capelli di mia madre, sempre nascosti dalla hijab(4) nera, odoravano di gelsomino, quando la sera veniva a darmi la buonanotte e a lasciarmi un pezzo di somun(5) accanto al letto, per placare la fame se mi fossi svegliato nel cuore della notte. Dopo nove mesi di attesa, paure e speranze, lei era riuscita ad accogliere quel figlio speciale. È piccolo, ma è mio figlio, aveva detto a mio padre. Poi non ne avevano più parlato.

 

La porta della bottega è spalancata, non c’è bisogno di chiuderla. Quelli che dovevano razziare sono già passati e non hanno lasciato più nulla da rubare: persino l’ultimo violino appeso a un filo ad essiccare sopra il vecchio banco da lavoro, dove mio padre disegnava con la sgorbia le bombature, seguendo le venature del legno e lasciando che la memoria del suono gli guidasse la mano. Finché un giorno arrivò. Entrò nella bottega, fissando lo sguardo sugli oggetti con la precisione e la freddezza di un uccello rapace. Si avvicinò a mio padre, con le mani appoggiate sui fianchi stretti da un cinturone dal quale pendeva un’arma d’acciaio luccicante, e lo scrutò da capo a piedi. Non gli sfuggì il tasbeeh(6) che mio padre portava legato al polso, perché ripetere il nome di Dio significava dimenticare tutto ciò che non era Dio. Gli anfibi risuonavano sordi sui mattoni di cotto del pavimento, mentre le sue dita sfioravano le corde dei violini, facendole vibrare con lunghi gemiti. «Sei bravo, figlio di Allah, ma continua a pregare perché tutto questo non basterà a salvarti.» Era l’inizio di luglio del 1995 e tutti noi aspettavamo che la guerra finisse, con pazienza, ascoltando ogni respiro perché avrebbe potuto essere l’ultimo, con calma perché era l’unico modo per ribellarci a ciò che non potevamo controllare.

 

Il latrato di un cane riecheggia tra le case dai comignoli senza fumo e la notte cala all’improvviso dentro di me come ventisei anni fa. «Seguitemi. Forza, dobbiamo andarcene.» Sussurrò mio padre con gli occhi che brillavano di fiamme che non avevo mai visto, mentre le sue mani sfioravano il tasbeeh. Ma quella notte nessuna preghiera avrebbe salvato Srebrenica dai miliziani serbo-bosniaci che ci strapparono dalle nostre case. Ci spinsero fuori nelle strade e nelle piazze, tutti i maschi musulmani, ragazzini e vecchi ottuagenari. Ci radunarono, pungolandoci ai fianchi con i mitra, e ci divisero in due lunghe file: a sinistra i bambini, a destra i destinati al martirio. Di quell’undici luglio mi sono rimasti pochi ricordi; la mente dimentica per non impazzire e cerca vie di salvezza sconosciute al dolore. Mi rivedo com’ero allora: mingherlino, la testa sproporzionatamente grossa e la fronte prominente. Per i mei compagni di scuola ero già Patuljak, il nano. Solo Osman, il mio compagno di banco, un ragazzo molto più alto e forte della sua età, non si piegava in due dal ridere quando, interrogato alla lavagna, riuscivo a scrivere col gesso solo nell’angolo più in basso. Osman era il mio migliore amico.

 

Finita la scuola Osman ed io trascorremmo intere giornate ad oziare nei prati striati del giallo delle genziane o a pescare vecchie carpe argentate sul fondo di buche profonde, dove le acque del Gostović rallentano prima di gettarsi a precipizio in piccole cascatelle. A quindici anni avevo superato l’esame finale con una sufficienza risicata, mentre Osman era stato bocciato e gli era passata la voglia di scherzare. Fu così che m’inventai un gioco nuovo. Saremmo stati i Suljo e Mujo del villaggio, poiché gli altri, i due scemi proverbiali protagonisti di tante barzellette, erano stati dati per scomparsi alla fine del 1992, quando tutti avevano capito che la guerra si sarebbe fatta più dura e la gente aveva smesso di ridere. Buoni ma stupidi, è così che veniamo considerati noi bosniaci, una reputazione che non ci disturba affatto, perché siamo noi i primi a ridere delle nostre disgrazie. E poi, io e Osman avevamo il physique du rôle: un nano e un ragazzotto troppo in carne, chi meglio di noi avrebbe potuto far rivivere le macchiette della comicità nazionale? Da allora, ci allenammo ogni giorno a provare nuove barzellette inventate lì per lì, con l’ausilio di un violino sfondato che avevo trovato nella bottega di mio padre. Presi dall’entusiasmo, una mattina improvvisammo un’esibizione nella piazza del paese. «Bravo, Patuljak!» gridavano tutti tra fragorosi scoppi di risate, quando conclusi lo show strimpellando una melodia sgangherata. Anche se non sarei mai riuscito a farli parlare, i violini avevano compiuto lo stesso un miracolo: adesso gli altri non ridevano più di me, ma grazie a me.

 

Un’esplosione poco distante blocca i miei passi. Sono così tante le granate inesplose abbandonate dai miliziani nei campi e nei boschi qui intorno che i pochi superstiti, stupiti di essere ancora vivi, non ci fanno più caso. È più facile abituarsi al fragore delle mine, che scandiscono le ore al posto del vecchio campanile crollato e della voce ammutolita del muezzin, che riuscire a convivere con il dolore che mi tiene sveglio la notte mentre penso a mio padre, e l’angoscia di non sapere come e dove sia stato ucciso accompagna ogni mio respiro, finché la luce del giorno s’infila come una lama incandescente sotto le palpebre stanche. Da tempo ormai non recito più il tasbeeh; nessuno dei novantanove nomi di Allah ha mai risposto alle mie preghiere o, forse, anch’io sono già morto e non lo so. Mi fermo, e la mente rivive il giorno in cui a Srebrenica i cuori smisero di sperare.

 

Osman ed io in fila, in attesa di conoscere il nostro destino. Il miliziano che ci si parò davanti aveva ai fianchi un cinturone dal quale pendeva un’arma d’acciaio, pesanti anfibi ai piedi e uno sguardo rapace che non avevo dimenticato. Appoggiò a terra il fucile mitragliatore e, dopo averci misurato con lo sguardo, sentenziò con un ghigno divertito.

«Sparisci, brutto nano! Non arrivi nemmeno alla bocca del mio fucile. Tu, invece, grande e grosso come sei, hai vinto un viaggio con gli altri maiali.» Non diedi tempo al suo sputo di toccare terra, dovevo escogitare qualcosa o per Osman sarebbe stata la fine. Il nonno ripeteva spesso che i serbi pretendono di essere i primi a ridere dei propri difetti. Certo, lui lo diceva scherzando con il nostro vicino di casa, il signor Jovanovich, sulla sua passione per i marchi tedeschi, i dollari dei Balcani, quando ancora serbi e bosgnacchi ridevano insieme davanti a una tazza di bosanska kafa(7), mentre io avevo a che fare con miliziani armati fino ai denti. All’improvviso mi ricordai una conversazione che avevo ascoltato settimane prima nell’ultimo bar rimasto aperto nel quartiere: tre avventori sorseggiavano čaj(8) in bicchieri di vetro e parlavano di soldati dai caschi blu che facevano affari con i serbi.

«Aspetta!» Gli gridai. «Sarò un brutto nano, ma sono anche un gran buffone. Che ne dici di farti quattro risate, prima di continuare ad ammazzare maiali? Conosco un numero davvero divertente ma, perché riesca, ho bisogno del mio aiutante. Sì, il ragazzotto grosso e stupido. Ti va l’idea?» Quando il miliziano chiamò a raccolta intorno a sé gli altri commilitoni, pensai che non avremmo avuto scampo, ma lo sguardo di Osman diceva che dovevamo provarci.

«Hai sentito, Mujo? I serbi hanno sparato 3500 granate su Sarajevo!» Attaccai.

«Sì, Suljo, ho sentito. Sembra che abbiano centrato anche la casa dell’Imàm Husein, eppure era un tipo gentile e servizievole. Coi serbi, intendo.»

«Vero, ma a furia di offrire loro sempre čaj alla menta per tenerseli buoni, devono essersi stancati. Ecco perché ci bombardano in continuazione. Lo sanno tutti che i serbi si venderebbero anche la madre per una Sarajevsko pivo(9), e quello scemo di Husein pensava di cavarsela con del čaj!»

«Hai proprio ragione, Mujo! Chissà quando la smetteranno di bombardare…»

«Non so quando, ma se continueranno a bombardarci con la stessa velocità con cui si ubriacano, avrò presto una buona scusa per non imbiancare casa!»

Non ci furono scoppi di risate sui volti tesi dei miliziani rimasti immobili. Strinsi la mano di Osman in un ultimo addio, quando il serbo che ci aveva misurati col fucile sbottò a ridere.

«Pensavi forse che non ti avrei riconosciuto, figlio del liutaio che pregava Allah? Sei stato coraggioso, non c’è che dire, ma adesso tocca a me scherzare. Ehi tu!» Disse rivolto a un commilitone. «Lega il calcio del tuo fucile alla canna del mio e dammelo. Ecco, vediamo un po’… Nessuno di voi arriva all’altezza di questo mitra. Non siete buoni neanche per morire! Via, sparite, prima che cambi idea.» Poi, sputando di nuovo a terra, concluse. «Salvati da un infedele astemio, questa sì che farebbe ridere anche Allah!»

 

Osman è lì, in piedi dietro il bancone da lavoro di mio padre. Mi sorride come ogni mattina, è il suo modo di dirmi che è pronto a ricominciare a vivere. Siamo fuggiti, insieme ad altri diecimila verso Tuzla, la città dei laghi salati. Abbiamo percorso cento chilometri attraverso boschi che celavano imboscate, muovendoci nell’oscurità come topi impazziti, spingendoci l’uno contro l’altro e trattenendo il respiro nel silenzio che esplodeva all’improvviso del fragore dei colpi d’artiglieria. Abbiamo marciato un passo dopo l’altro, perché là, cento chilometri davanti a noi, c’era l’unica speranza di sopravvivere. Abbiamo camminato per giorni, con la fame che ci mordeva lo stomaco e il freddo che ci faceva battere i denti, ma siamo andati avanti, perché ogni singolo passo faceva la differenza tra la vita e la morte. Siamo caduti e ci siamo rialzati, perché qualcosa dentro di noi gridava che non ci volevamo arrendere, anche quando il trascorrere dei giorni e delle notti era scandito dagli spari che riempivano l’aria di un odore acre e dalle preghiere di quelli che si affidavano a Dio prima che una fossa comune li inghiottisse. E quando abbiamo pensato di essere troppo stanchi per continuare, le case di pietra bianca di Tuzla ci apparvero in lontananza.

 

Raccolgo la custodia del violino sul bancone e me la metto a tracolla. Osman annuisce e mi segue. Ogni giorno giriamo per villaggi dove la gente ormai sorride di rado e le madri, quando ci vedono arrivare, ci vengono incontro per dirci che non sanno più cosa raccontare ai bambini impauriti per dare loro coraggio. Osman ha scoperto che tra i superstiti va forte un gioco: scoprire di che anno sono i biscotti distribuiti con gli aiuti umanitari. Io, invece, ho capito che l’unico modo per strappare una risata è parlare di cose serie come il lavoro, la pace, la giustizia: in realtà, tutte cose che abbiamo perso. Quando finiamo il nostro numero, prendo il violino, strimpello un motivo stonato e il miracolo si compie ancora: la gente applaude e le risate si fanno contagiose.

 

Il mio nome è Enis, ma tutti mi chiamano Patuljak. M’infilo un giaccone pesante e, ogni mattina quando un chiarore ancora livido annuncia l’alba, esco. Cammino, mentre ascolto i miei passi risuonare lungo strade vuote che custodiscono intatte le orme di coloro che non sono più tornati. Cammino e penso che Osman abbia ragione: noi due siamo ingenui e un po’ sciocchi come Suljo e Mujo. O forse, invece, la verità è che a noi piace far ridere per dispetto, perché non ci siamo arresi alla disperazione. Per dimostrare di essere ancora vivi.

 

(1) Kaaba: l’edificio più sacro dell’islam, situato nella Sacra Moschea al centro della Mecca

(2) cevapi: spiedini di agnello e manzo

(3) ustipci: palline di pasta fritta ripiene di miele

(4) tasbeeh: strumento di preghiera islamico simile al rosario

(5) somun: pane rotondo, sottile che si gonfia al centro durante la cottura ed è vuoto all’interno

(6) hijab: velo che copre la testa e il collo, lasciando scoperto il volto

(7) bosanska kafa: caffè bosniaco servito con zollette di zucchero da sciogliere in bocca

(8) čaj: tè, la cui variante alla menta è molto diffusa in Bosnia

(9) Sarajevsko pivo: birra prodotta a Sarajevo