E poi, un giorno, rise

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Parte I

 

Zelda passeggia per la città avvolta nel suo vecchio cappotto grigio. Qualcuno che la osservi con attenzione potrebbe notare che ogni tanto compie dei gesti che rendono evidente che sta nascondendo qualcosa: si guarda intorno con fare furtivo e tiene la sua borsa stretta a sé. Che sia gelosa dei suoi possedimenti? Diffidente di chi la circonda? La sua borsa ha un particolare valore affettivo? O forse quest’ultima contiene qualcosa che è meglio che gli altri non sappiano? La risposta a queste domande non la ottiene il semplice osservatore di passaggio e Zelda ne è consapevole. Per questo, dopo il suo veloce e periodico controllo della situazione, prosegue la sua passeggiata come se nulla fosse.

 

La gente per le strade cammina, sono fatte per quello le strade, per arrivare da qualche parte. Poi c’è chi sta seduto o seduta, spesso è perché facilita un’azione temporanea: mangiare un gelato, svolgere una conversazione importante, riposare le gambe… pochi, pochissimi escono di casa con l’obiettivo di sedersi su una panchina. Tra quei pochissimi c’è Zelda, che sta camminando e improvvisamente si ferma e si siede sulla panchina e semplicemente così sta. Non mette a posto i suoi capelli, non fruga tra le sue cose, non consulta un orologio o un cellulare fingendo di star aspettando qualcuno o qualcosa. Sta seduta e osserva inespressiva i diversi visi ed emozioni che passeggiano davanti a lei. Sente un ragazzo esprimere il suo entusiasmo per il tempo che c’è, molto più bello di quello di un altro luogo in cui, a quanto pare, si trovava sino a qualche giorno prima. Una donna dalle mani tremanti lega a fatica il sacchettino con le feci dei cani che le scodinzolano ora intorno. Due bambini passano fianco a fianco chini su cellulari tenuti in orizzontale, esclamando commenti su un qualche videogioco.

 

All’improvviso ecco che Zelda tira fuori un minuscolo quaderno e una matita dalla tasca esterna del capotto e scribacchia un paio di brevi segni di grafite e poi ricomincia a guardarsi intorno. Il suo scatto nel prendere a scrivere, si ripete più volte nel tempo che segue, e ogni volta dura pochissimo, non può star scrivendo frasi con quei pochi segni. Qualcuno che passando si incuriosisca all’idea di qualcuno con carta e penna in mano, potrebbe notare che su quei fogli non ci sono altro che numeri da quattro cifre, suddivisi in colonne, alcuni presentano delle stelline o dei puntini accanto. Dopo un po’ di tempo, qualcuno che la osservi con ancora più attenzione di prima, potrebbe notare che i suoi brevissimi appunti li prende solo dopo che una persona ha riso.

 

Parte II

 

Il sottopalco è fiocamente illuminato da qualche lampadina sul soffitto spoglio. In un angolo c’è una scrivania di legno piuttosto rovinato e graffiato; vi sono posati un computer, qualche foglio, delle matite e alcune stoviglie sporche impilate in un angolo. Lì vicino c’è anche un letto che non ha per niente l’aria di essere un oggetto di scena abbandonato a sé stesso, le lenzuola sono relativamente pulite e ben ripiegate e vicino al cuscino c’è un libro aperto come se fosse stato lasciato lì di recente a metà lettura. Il teatro è ancora chiuso al pubblico, lo spettacolo non inizierà prima delle 21 e bigliettai, tecnici, attori e vari altri personaggi non arriveranno prima delle 18. Eppure, in quel silenzio profondo e polveroso, si sentono dei passi decisi sulle scale che portano al sottopalco. Dalla porticina, quasi sempre aperta, ecco che entra Zelda, si toglie il cappotto, lo appende vicino a un finto camice da medico e si siede alla scrivania con la borsetta in mano, la apre delicatamente e ne tira fuori un grosso aggeggio metallico collegato ad un oggetto che è evidentemente un microfono, appoggia la borsetta per terra per fare spazio e poi inizia a trafficare con alcuni cavi per collegare quell’aggeggio al computer. Circondata da vecchi scatoloni polverosi, collane di fiori finti, vestiti stracciati e locandine rovinate dall’umidità; inizia a digitare comandi al computer e a lanciare un occhio ogni tanto agli appunti del quadernino. Il computer inizia ad emettere ogni tanto suoni di risate, tutte diverse. Senza troppo sforzo è possibile riconoscere l’età di chi ride e qualche sfumatura di sentimento in quei suoni. Zelda continua ad armeggiare al computer e dopo un po’ inizia a esserci qualcosa di insolito in ciò che il computer, sotto i suoi comandi, emette. Si sentono ancora risate, ma c’è qualcosa di inusuale: non è il solito scroscio di risate che, siano singole o individuali, spariscono uniformemente così come erano arrivate. È diverso: le risate hanno un ritmo, si sovrappongono con una logica musicale e alcune di loro compongono quella che sembra una vera e propria melodia. Paradossalmente, considerato l’ambiente sonoro che si è creato ora nella stanza, il viso di Zelda rimane piuttosto impassibile al lume della luce blu emessa dallo schermo davanti a lei. Zelda prosegue la sua opera. Zelda continua a comporre musica con le risate. Poco prima delle nove un giovane scende a chiamarla “Ehi carissima” dice rivolgendosi a lei “Manca poco all’apertura del sipario, gli altri tecnici ti aspettano di sopra”. Zelda spegne il suo computer e tra scale e corridoi raggiunge infine il suo posto di lavoro come tecnica delle luci. La sua collega le fa un cenno di saluto, Zelda dice un meccanico “ciao”, ma neanche si sforza più di provare a fare un sorriso che non sembri una smorfia.

 

Zelda non prova emozioni. Un giorno, mentre vedeva un bambino piangere davanti a un pettirosso ferito ha realizzato di non aver mai sentito una lacrima scorrere sulla sua propria guancia, quello stesso giorno ha realizzato di non aver mai perso il controllo di qualcosa per via di ansia o rabbia, quello stesso giorno si è resa conto di non aver mai riso e che per lei tristezza, paura, angoscia, felicità, dolore, amore sono solo parole e non le dicono molto altro. Quel giorno ha finito per autodiagnosticarsi l’incapacità di provare o esprimere emozioni, non ha mai preso in considerazione di consultare un dottore… da quel giorno le è importato solo di quelli che chiama “i suoi progetti”. Ha cominciato analizzando i sorrisi, fotografando tutti quelli che vedeva e misurandone l’angolazione e tracciandone asimmetrie e curvature. Ha riempito centinaia di bloc notes con quelle linee semplificate ma estremamente precise e nessuna era uguale ad un’altra. Un giorno ha preso a ricopiarle, tali e quali, su un unico grande foglio, sovrapponendole fino a che questo non è diventato un ampio rettangolo ricoperto di grafite. Poi è passata alle lacrime, non le importava tanto da che emozioni potesse essere comportato, ma dal fatto che fosse un’emozione umana capace di trasformare la materia. Osservava animi tristi e felici lasciare parti di sé sotto forma di goccioline umide. Quelle lacrime erano per lei la condensazione di un’emozione impalpabile. Si era convinta che forse circondandosi di questa forma tangibile di emozioni sarebbe finalmente riuscita a provarne anche lei. Collezionava lacrime di conoscenti e sconosciuti in boccette tutte separate. A volte chiedeva permesso alle persone che stavano piangendo e le raccoglieva direttamente dalla loro pelle, a volte le prendeva su con una pipetta da tavolini di bar e ristoranti, dopo che qualche emozione forte era stata vissuta da qualcuno seduto li. E poi un giorno ha versato tutte le lacrime nelle aiuole dei giardini pubblici e ha iniziato a collezionare risate. Le registra attraverso un microfono nascosto nel teatro in cui vive, o nella borsetta, quando se ne va in giro. Una sera, quando per sbaglio ha aperto due file audio di risate allo stesso tempo si è accorta che due risa diverse sovrapposte formano qualcosa di nuovo e speciale e da allora ha iniziato a tagliare, replicare e sovrapporre e fondere decine e decine di risate. Vuole comporre un brano fatto solo di quella materia umana involontaria. Ci sta lavorando da mesi e lo sente quasi finito, ma manca qualcosa che però non è ancora riuscita a spiegarsi cosa sia.

 

Parte III

 

Quel giorno a teatro succede qualcosa di straordinario, a un certo punto dello spettacolo Zelda sente una risata diversa da tutte le altre: è frizzante, cristallina, si libra nell’aria leggera, ma al contempo sembra portare con sé l’intensità di mille significati, è un po’ come se nel suo esistere avesse qualcosa da narrare. Sta dicendo qualcosa che Zelda non riesce a capire, ma al contempo non vuole capire perché è proprio questo ostacolo che la attrae così tanto. È un po’ come sentire parlare un saggio in una lingua incomprensibile, potrebbe certo essere interessante avere una traduzione, ma anche la sola percezione sembra avere molto di più da trasmettere. Zelda è sorpresa dallo strano calore che quella risata le fa provare, la sente più volte nella serata e inizia a incuriosirsi su quale potrebbe essere l’identità di chi la porta. Purtroppo, le luci con cui lei lavora puntano al palco e il pubblico rimane al buio impedendole di identificare chiunque. A spettacolo concluso, finito di sistemare gli strumenti di lavoro e salutato i colleghi, Zelda, si reca al luogo del teatro in cui tiene il secondo microfono nascosto. Quella notte non dorme, lavora per ore al suo computer modellando le tracce audio di quella risata magica. Alle prime ore dell’alba le si chiudono gli occhi dalla stanchezza, ma non le importa aver sacrificato tutte quelle ore di sonno. Ora riascolta quel brano e le sembra che non manchi nulla, percepisce il suo ennesimo progetto completato. Eppure, ancora una volta sente che manca qualcosa, non tanto al brano, ma a sé stessa. Per tutta la notte non ha potuto smettersi di chiedersi chi potesse essere il proprietario o proprietaria di quella risata che aveva fuso e dato un’identità alla sua musica di risate.

 

Parte IV

 

I mesi passano e le espressioni impassibili di Zelda sono ora più cupe che mai. Poi un giorno, di “il giovedì al teatro”, mentre Zelda regola e cambia luci per seguire gli attori sul palco, quel suono torna vivo nella sua mente. Non è la sua immaginazione, non è una registrazione, è di nuovo quella risata. Zelda deve assolutamente scoprire chi sia, ma non sa come. Durante la serata analizza la situazione e alla fine prende una decisione. Quando lo spettacolo sta per finire inizia a pensare che forse non riuscirà a metterla in atto, ma ecco che la risata torna e Zelda prontamente agisce. Corre al sistema di manovra manuale dei riflettori e lo punta verso il pubblico, velocemente lo scorre tra la folla e dopo pochi secondi il fascio di luce bianca illumina quell’esile vecchio i cui movimenti coincidono e danzano in armonia con la risata che sta emettendo. Il resto del pubblico tace e tra smorfie varie si copre gli occhi dalla luce del riflettore sollevando mani e volantini della rassegna teatrale. Il vecchio della risata però non sembra troppo sorpreso da quella sorta di flash gigante puntato su di lui, ride ancora qualche attimo e poi solleva lo sguardo e stringendo un po’ gli occhi riesce ad intravedere la figura di Zelda che nel frattempo ha diminuito l’intensità della luce. Zelda scappa nel sottopalco.

 

Dopo la fine dello spettacolo, viene chiamata dal direttore “Zelda, lo sai che vogliamo bene a te e alle tue stranezze, siamo un piccolo teatro di persone un po’ pazze e amiamo l’atmosfera che si vive qui dentro. Non ti abbiamo mai chiesto niente in cambio della possibilità per te di vivere nel sottopalco e portare avanti i tuoi progetti, ma oggi, non so cosa avessi in mente, hai superato un po’ i limiti. Intanto vai sul palco a scusarti e magari ne riparliamo dopo… o forse meglio domani mattina che sono stanco.

 

Zelda è ora sul palco, mentre saliva le scale che la portavano davanti al pubblico aveva pensato di dire semplicemente scusa e poi andarsene, ma una volta là dopo il suo “Scusate…” la sua bocca non si chiude ma continua a muoversi per decine e decine di minuti e il pubblico presta attenzione come non mai. Senza lasciare trasparire alcuna emozione Zelda racconta di tutta la sua storia, delle sue mancate emozioni, dei suoi progetti e di come ha deciso di vivere nel sottopalco perché spera che le emozioni depositate sul palco filtrino poi la sera e piovano, invisibili, sul suo corpo. Racconta anche della sua musica e di come le risate di gruppo servono sì a creare i bassi o una qualche struttura nelle sue composizioni. Ma la vera meraviglia sono quelle risate solitarie, sono le voci soliste nel concerto dello stupore. Quel suono che si fa largo nel silenzio, nel momento non calcolato, incurante di ciò che la circonda. E solo alla fine, spiega il perché di quella luce puntata e le persone applaudono e il sipario si chiude e nell’atrio del teatro il vecchio esile le si avvicina sorridendo. Le porge un biglietto, Zelda lo legge. C’è scritto “Un giorno ho smesso di parlare, ma questa è un’altra storia. Fatto sta che la risata è l’unico mezzo con cui ora posso incanalare le emozioni sotto forma di espressione sonora. Forse è per questo che ti sono piaciute tanto. Mi ha fatto piacere sentire la tua storia, voglio aiutarti a ridere”. Il vecchio sorride. Zelda annuisce e dice “Mi piacerebbe molto”. I due si ritrovano per qualche tempo, prima degli spettacoli, e a quanto pare l’anziano signore conosce qualche segreto che davvero funziona. Un giorno Zelda, per la prima volta, emette dei suoni che sembrano quasi una risata ed è proprio udire quel suo proprio primo sgorbio sonoro che la fa divertire, rallegrare, gioire e sentirsi euforica come non mai. Il vecchio sorride. Zelda ride e poi piange e poi, con le lacrime agli occhi, di nuovo ride.

 

Qualche anno dopo, si narra che i due siano diventati grandi amici e girino per i palchi del mondo commuovendo ogni tipo di pubblico con concerti e spettacoli fatti solo di risate, ma questa è un’altra storia.