Il silenzio delle vespe

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Sono nella casa di Milano, quarto piano, usciti dall’ascensore a destra, la porta in fondo al corridoio. Trilocale semplice, arredato moderno, come piace alla moda di oggi. Doppi vetri, per isolarsi dal traffico di via Pasubio, e un terrazzino, con qualche pianta sempreverde e tendente al grasso. Ho voluto io quel terrazzino, per potermi affacciare e respirare smog e rumori notturni in quelle sere d’estate in cui la città non riesce a prendere sonno, e sale quella voglia insana ma irrefrenabile di fumare una sigaretta sudata. Margherita, la mia compagna, non lo voleva, quel terrazzino che stavo cercando ovunque, diceva che era inutile, inutilizzabile, “2 metri quadri da pulire ogni 3 giorni dalle schifezze dell’aria milanese”. Le schifezze dell’aria milanese. Per lei sono sempre state un’ossessione. Margherita viene dalla Liguria, dal Vento e dal Mare, spesso in tempesta. Milano per lei è un lago caotico colmo di schifezze.

Sto preparando la mia piccola borsa, mutande e calze di emergenza, una maglia di lana spessa, pantaloni tecnici antipioggia, giacca antivento.

Domani mattina presto parto per una gita in Vespa.

 

È l’ora più bella, quella in cui accendo la Vespa. Il Crepuscolo, la linea sottile tra la Morte e la Vita, il magico punto di incontro tra la Notte e il Giorno, tra Silenzio e Suono.

Punto a Nord, direzione Alpi, valli, quiete, rugiada, frescura, futuro.

 

Mentre viaggio con la testa nel casco i pensieri si rivolgono al mio interno, e le immagini che si creano ripercorrono la mia Vita. Penso a Agata, mia figlia, che ha iniziato la Scuola lo scorso settembre. L’immagine di lei che si gira e tende la mano, vestita bene con lo zainetto nuovo, rosa e decorato con un gigantesco e sgraziato orso marrone. Fa solo un mezzo sorriso, quasi un Crepuscolo sulle sue labbra, punto di incontro tra Passato e Futuro, tra Gioia e Spavento.

 

Mi spavento forte quando ad un certo punto mi supera una moto potente con un fracasso d’inferno.

Penso: Ma come, io son qui, bello preso nei miei pensieri mentre guido la mia Vespa a velocità blanda verso la Pace, e questo demonio mi supera con un rombo, un ruggito del diavolo che mi fa trasalire. Quasi sbando dal tanto che sono turbato. Il cuore mi sobbalza e lo sento accelerato per qualche minuto, in cui tra l’altro vado pianissimo e penso che l’essere umano è un vero diavolo pazzo ad aver inventato motori così potenti e così rumorosi.

E mi viene in mente di quando una volta, dopo ore di cammino faticoso, raggiunsi con Margherita quel bel rifugio sul crinale a 2500 metri s.l.m. Da lì, sentivamo ancora le accelerazioni dei motociclisti demoni risalire i tornanti della strada, 1300 metri di dislivello più in basso. Ed era bello spostarsi anche soltanto di qualche metro più in giù, sull’altro versante, quello rivolto verso la Valle Incantata, ed essere accolti da un Silenzio puro, dal canto dei grilli, dal crescere dell’erba. Baciarsi e diventare vecchi insieme. Morire insieme, abbracciati.

 

Sono arrivato al Passo. Scendo, mi sgranchisco, bevo una birra. Inspiro ed espiro. L’aria frizza ma il Silenzio non è qui. Non dimora più tra queste montagne. Ha ragione Messner, che vuol chiudere le Dolomiti al traffico. Mi viene voglia di chiudere tutte le montagne al traffico, e riempirle di neve tutto l’anno. Una tormenta incredibile. Come quella di cui mi parlava sempre mia nonna, quando ero bambino. Mi immedesimavo a tal punto in quei racconti della Milano anni ‘30 che nel mio letto sognavo, camminavo senza vedere più nulla, senza sentire più nulla, accecato dai fiocchi, mangiavo neve, bevevo sudore e ingoiavo paura ed eccitazione. Gracchiava il corvo e nel Silenzio della stanza cantava la mia nonna una canzone a mezza voce: plin plin cavalin tri staia de mulin pan cald pan fresc ti quest mi quel.

Ancora oggi quando prevedono una nevicata mi eccito, e trascorro la notte con l’orecchio teso per sentire che rumore fanno le macchine. Se secco e preciso come quello delle ruote sull’asfalto asciutto, oppure fanno sciaf, oppure plin plin cavalin, il meraviglioso rumore cupo di motore a bassi regimi, attutito dalla neve. Poi sbircio fuori dalla finestra, prestissimo, e se vedo bianco, subito corro a svegliare tutti, Agata che si veste veloce, su il cappotto e fuori a giocare e a modellare pupazzi deformi con il naso a carota.

 

Guardo in alto, verso le Cime, ma non c’è neve su queste montagne, in questa stagione.

Passeggio su un sentiero, per allontanarmi il più possibile dalla strada e dal caos.

Dopo mezz’ ora sono sudato ma non voglio fermarmi, devo continuare a salire. Arrivo a un vecchio rustico, le finestre sono aperte, si apre anche la porta e mi si fanno incontro due signori, grigi di capelli e rosei in volto. Parlano il loro dialetto ma capisco che sono contenti di avere visite, forse non comunicano molto tra di loro. Mi invitano dentro a vedere la loro casa: la stufa, le travi di legno al soffitto e i paioli di polenta a decorare qua e là le pareti di pietra grigia. L’aria sembra immobile, in quella casa. Non si sentono rumori. Le pietre, spesse, ovattano. Sento il battito del cuore. Rimbomba nelle mie orecchie il suono regolare della carta vetrata sul legno, del piccone sulla pietra, del mestolo sul paiolo.

Si sta bene lì dentro. Mettono su la moka. Quando sale il caffè, sembra di sentire un fiume gonfio di pioggia. Significa che la casa è silenziosa, accogliente, il benessere al suo interno totale.

Bevo il caffè e ascolto racconti di quando i loro bisnonni si decisero a costruire una cascina su questi pendii. Portar su tre mucche durante l’estate, inciccirle bene, provare a superare l’inverno, con poco latte e qualche formaggella ammuffita. Poi il boom immobiliare in valle, nessuno pensa più all’alpeggio e l’alpeggio si offende, si intristisce, si lascia andare, diventa un rudere. AAA vendesi rustico da ristrutturare in ottima posizione con carrozzabile, ma nessuno dalla città ci crede davvero, e solo loro, montanari testardi e nostalgici, hanno avuto la forza e la pazienza di rimetterlo in sesto. Adesso, ogni tanto, ci passano qualche weekend in estate. Per godere del Silenzio dei monti, quello vero, dicono. E io ripenso ai motociclisti demoni.

Chiedo se è in vendita: sarebbe bello portarci Agata, e farla vivere nel periodo estivo come se fosse Heidi. Quante volte lo abbiamo immaginato, io e Margherita, nei nostri sogni di cittadini soffocati. Poi il coraggio di farlo non è mai arrivato, o forse si è nascosto dietro altre ambizioni, o distrazioni.

Non è in vendita, in ogni caso. È la loro storia, la loro fatica e il loro orgoglio, anche se non lo sfruttano come vorrebbero. Lo vogliono tenere, sperano che un giorno qualche loro nipote tornerà dalla città per mantenerlo in vita.

 

Si sente un tuono lontano. Saluto con un abbraccio i due vecchini e mi affretto giù, lungo il sentiero, ma so che non sarò abbastanza veloce e che pioverà su di me. Dopo pochi minuti e parecchi altri tuoni, sempre più forti, sempre più vicini, il temporale è qui. Il bosco inizia il suo concerto, ogni albero è un elemento di un’orchestra maestosa. È il suono che preferisco dopo il Silenzio della Neve. Entra nelle orecchie, non passa nemmeno dal cervello ma scende direttamente nell’anima, e la placa. Credo che dopo la Morte non vi sia Silenzio, ma rumore incessante e dolce di Pioggia nel Bosco.

Il temporale dura più di venti minuti, adagio forte e poi piano, e quando sento lo sgocciolio diminuire, istintivamente applaudo, con gli occhi umidi per l’emozione.

 

Mi rimetto in cammino e raggiungo la Vespa. Il traffico sulla strada bagnata fa ancora più caos, e mi viene una gran voglia di tornare a casa, ritrovare la doccia calda, i giochi di Agata, i passati di verdura tiepidi e saporiti di Margherita.

Riparto, vado ancora più piano di prima perché sul bagnato ho paura di cadere. I centauri demoni mi superano e mi schizzano il parabrezza di acqua sporca.

Vedo pochissimo, al primo tornante metto giù il piede per non cadere. Al secondo sono per terra, quasi senza accorgermene.

Si fermano due moto dietro di me, mi chiedono se va tutto bene, ma si intuisce che stanno ridendo sotto i loro caschi borchiati e pensando che sono un incapace. Mi rialzo e li saluto con il più bel sorriso che riesco a confezionare in un momento così umiliante. Tento di riaccendere la Vespa, grazie a Dio riparte subito, e riparto anch’io. Sono quasi paralizzato: vado così lentamente che se camminassi, mi supererei.

Non sento nemmeno più i rumori delle moto demoniache, sono concentratissimo. Non mi accorgo che la Vespa è tutta rigata sulla fiancata sinistra Non mi accorgo dell’arcobaleno verso il fondo valle. Non mi accorgo del grido dell’aquila che volteggia sopra di noi. Non mi accorgo che Margherita mi parla nel casco ed è sempre più arrabbiata, quando sono in casa, con la scusa, dice, che non ci sono mai.

L’asfalto si asciuga, e riprendo confidenza, stabilità, velocità. Mi accorgo nuovamente dei rumori delle moto demoniache, delle sfumature di verde sui pascoli alti, appena prima che la roccia prenda il sopravvento, e mi accorgo di quanto sto bene quando sento la voce di Agata gridare “Papi, papi!” dalla sua stanzina, al mattino appena svegli.

 

Quando raggiungo il primo paese il sole è fuori, asciuga e scalda. Mi torna in mente una gelateria in cui portavo Agata qualche anno fa, baby-cono ai frutti di bosco. Tutta rossa in faccia e sul vestito, mi sorrideva e ne voleva ancora, e ancora. Era bello il rumore della cialda che scrocchiava sotto i suoi denti da poco spuntati.

Prendo una coppetta stracciatella e pistacchio. Mi siedo sulla panchina che guarda verso la valle. Do le spalle alla gente che passeggia e chiacchiera, carpisco brandelli di discorsi vari, mi soffermo sulla sonorità delle parole, i toni alti, il ritmo dei respiri, e di colpo sono assopito.

Passa un’ambulanza con la sirena accesa e trasalisco. Mi alzo di scatto dalla panchina e trasalisco di nuovo: la mia Vespa è scomparsa!

Il Silenzio della valle è lacerato da un grido disumano, la mia rabbia che fuoriesce. Calma, calma, sono ancora intontito dal sonnellino, semplicemente non mi ricordo dove l’ho parcheggiata. Ma no, era lì, ne son certo. L’avranno spostata. Ma no, aveva il bloccasterzo inserito. Ma no, no, ma no! Me l’hanno proprio rubata.

Passano almeno cinque minuti in cui resto immobile, seduto sulla panchina di prima, casco a sinistra, zainetto a destra. Sembro Buddha in meditazione, ma in realtà dentro è un turbinio di pensieri, improperi, maledizioni lanciate contro ignoti. Dopo i primi cinque minuti, altri tre in cui si sentono i cigolii degli ingranaggi cerebrali che si mettono in moto, per escogitare il piano migliore per rientrare a Milano da lì.

Denuncia di furto, piedi, autostop, taxi, ed ecco finalmente la soluzione: l’Autostradale. Quel pullman, nel cui nome è insito un controsenso madornale (si chiama Autostradale ma si inerpica su stradine di montagne) ha sempre suscitato su di me un grande fascino, dai tempi in cui a sedici anni lo presi per la prima e unica volta per raggiungere la nonna. Plin plin cavalin, lo sbuffo del motore che arranca in salita. Ricordo poi il rumore delle sue sospensioni, e il gracchiare degli altoparlanti troppo sotto-dimensionati per regalare un suono decente ai viaggiatori. La gente sempre in Silenzio, persa nel libro o nel paesaggio. Rumore di motore fuori, silenzio di viaggiatore solitario dentro.

Compro il biglietto e salgo, scelgo un posto finestrino, lato destro rispetto al senso di marcia.

Due paesini dopo sale parecchia gente, aumenta il brusio, al terzo paesino mi ritrovo di fianco una ragazza che ha voglia di parlare. Dato che io invece non sono dell’umore, rispondo a monosillabi.

Sei del paese sopra?

No.

Vai a Milano?

Sì.

Sei di poche parole.

Sì: adoro il Silenzio, per questo mi piace salire in montagna.

Ah.

 

Arriviamo in Piazza Castello che è già molto tardi. Ci siamo baciati verso la fine del viaggio, e non so nemmeno il perché. Non so neanche come si chiama. Ho pensato fosse il miglior modo per farla tacere. Ci siamo salutati con un cenno del capo, come se, tacitamente, l’accordo di bandire qualsiasi parola, anche soltanto un banalissimo ciao, fosse stato stipulato con quel bacio.

Decido di camminare verso casa, sono stufo di prendere mezzi pubblici. Arrivo al portone di Via Pasubio ed è molto tardi, forse già mezzanotte, o oltre. Entro, chiamo l’ascensore ma subito me ne pento, perché fa un rumoraccio di ferraglia che sveglia tutto l’isolato. Chissà se Margherita e Agata si sono svegliate. Chissà cosa hanno fatto oggi, senza di me. Chissà.

Entro in casa, è tutto buio, faccio pianissimo e accendo solo la lampada della sala. Il Silenzio è totale, spaventoso. In casa non c’è nessuno. Solo Silenzio, desolante.

Margherita e Agata se ne sono andate 2 anni fa, e ancora non conosco il perché.