LA MIGLIOR DIFESA

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Ci sarà un posto sicuro, per te, anche se certamente non è questo e non è ora.

Mi ripeto, in un sussurro pieno di tremore, pieno di timore, pieno di me.

Raggomitolata al buio in una coperta troppo poco calda. La completa inutilità di cercare di scongelare un gelo che è dentro di me non mi frena dal tentare, ancora e ancora.

Salvarmi non è un’opzione e so che il nemico con cui combatto è velenoso, insidioso, vischioso, un buio denso in cui entro a tentoni, senza sapere se il prossimo passo sarà leggero o cadrà pesantemente nel vuoto.

La rabbia è l’ombra che soffia sul collo.

 

Respira.

Respira.

Respira.

Qualche volta dimentico quanto sia necessario. E’ in quei momenti che subentra il panico, la mia vista si annebbia, il cervello si stacca ed io sono preda di emozioni incodificabili, cui permetto di rendermi preda indifesa.

Ma non lo sono, oh Dio, non lo sono affatto, altrimenti non sarei più viva, a questo punto. Non rimarrebbe di me altro che una poltiglia infranta, un gruzzoletto di lacrime lasciate a seccare.

Una battaglia alla volta, con armi sempre più affilate che sono difese della mia mente e un corpo di giorno in giorno meno fragile, avanzo preparando il mio esercito alla guerra, alla guerra vera.

Sono il mio generale, il mio unico soldato, sono la patria per cui lotto. Devo portarmi fuori da questa follia, devo condurre me stessa in un futuro migliore, dove le fiamme non mangiano la quiete e dove nel silenzio sa scendere silenziosa la pace.

 

Respira.

Respira.
Respira.

Anche questa notte passerà così, sospesa su un filo sottilissimo di un equilibrio tremante: dovrò tenere salda la presa su tutti i piccoli pezzi in cui sento spaccarsi il mio cuore, il mio spirito, la mia forza o come preferite chiamarlo.

Vi ancoro le dita perché non ne sfugga nessuno; devono restare con me affinché io possa, domani o il giorno dopo ancora, riassestarmi e fuggire dove il passato mi parrà uno di quegli incubi attanaglianti che svaporano al mattino lasciandoti l’amaro in bocca, una confusione che poi si riassorbe come un ematoma.

 

Mi sento afferrare per un braccio e sbattere fuori dal letto, contro il comò.

– Che cosa fai ancora a letto, eh?

Mi arriva uno schiaffo in pieno volto, molto prima che io capisca cosa stia succedendo.

Una sveglia niente male. Come cominciare la giornata col piede giusto, no?

Mi massaggio una guancia, aspettando che il dolore passi. Solo dopo riesco a mettere a fuoco il viso contratto di mia madre, anche se l’avevo riconosciuta da subito. Sospiro.

La forma spigolosa e fastidiosa delle sue mani non mi è nuova; conosco i suoi palmi come i miei… la differenza è che i suoi ce li ho stampati addosso.

– Devi muoverti, devi preparare la colazione a tuo padre, devi vestirti e levarti dai piedi. Vai a fare il tuo dovere, vattene a scuola!

Osservo inespressiva la sua sfuriata. Dal suo labbro rotto si direbbe che la colpa della sua collera non sono di certo i cinque minuti di troppo che ho concesso al mio riposo.

La vera causa siede imponente dietro un tavolo sbilenco e troppo piccolo, sorridendo sotto i suoi baffi bruni, in attesa di essere servito da quelle che ritiene le sue piccole schiave, i suoi giocattoli portati da un Babbo Natale particolarmente in vena.

Ma quale Babbo Natale.

Chiunque sia lo stronzo ad avermi mandato qui, prima o poi mi sentirà. E ne ho di veleno da sputargli addosso.

 

Quando entro in cucina, come ogni mattina lui mi rivolge uno sguardo innocente, che sembra urlare “non volevo, ho alzato il gomito, non è colpa mia, le ho detto di non istigarmi, quando ci si mette sa essere veramente fastidiosa, io ho tentato di controllarmi” ed altre baggianate che non hanno più senso.

C’era un tempo in cui gli credevo e questo mi permetteva di affrontare la giornata a cuor leggero, dicendomi che non sarebbe più successo perché lui non era quel tipo di uomo, lui era mio padre ed un padre non fa così.

Questo milione di anni luce fa, quando ero ancora bambina e c’era in me l’innocenza dell’illusione, ora per fortuna infranta. Non sopporto l’idea di averlo in qualche modo giustificato, di avergli scioccamente dato fiducia; ciò che si merita è il disgusto che provo, tanto per lui quanto per lei, incapace di riprendersi la propria vita, inetta, così persa da non proteggere nemmeno quella ragazzina spaventata che le vedeva cadere a terra, nascosta dietro la porta. Quella ragazzina che ero io ed ero sua figlia.

Non poteva combattere per se stessa?

Che combattesse per me.

Non riusciva a rispettarsi?

Che rispettasse me.

Non ero io che dovevo metterla al sicuro, non ero che dovevo prendermi cura di lei, non ero io che dovevo asciugarmi le lacrime in silenzio perché “se papà le vede è ancora peggio”.

Che sia ingiusto, però, non basta a non far capitare quel qualcosa; quindi capitò, una, due, tre, mille volte, finché in me l’aspettativa di un giorno migliore non è scemata strisciando in vite lontane dalla mia.

Sono stata un automa che si muoveva in questa casa pulendo dove c’era da pulire, sistemando dove era necessario sistemare, chiudendo gli occhi quando si alzavano le mani e tappandomi le orecchie quando si urlava.

Così ho passato i primi anni dell’adolescenza. Un giorno mi sono svegliata e niente mi induceva a pensare ad un cambiamento, ma qualcosa nella mia mente era scattato.

Mi sono guardata allo specchio e ho visto l’immagine di mia madre ricalcare e coprire la mia.

E’ stato un colpo, mi è girata la testa, mi è salita la nausea quando ho compreso che mi stavo arrendendo esattamente come lei.

Per colpa sua, che non si ama e non ama me. O se lo fa, le riesce male.

Lui è il lupo cattivo, ma lei non è la povera Cappuccetto Rosso.

Lei è sua complice nel rendere la mia vita bruciante come una ferita aperta. Lei è condanna di se stessa, ma io ho deciso tempo fa di non lasciare a nessuno il permesso di affossarmi.

Continuando su quella strada avrei perso la rotta e probabilmente ora non sarei che l’ennesima “vittima”, che guarda quella sottospecie di prodotto umano con una certa devota compassione, nella patetica speranza che prima o poi qualche grazie divina lo renderà l’uomo dei sogni, il fantomatico e plastico Principe Azzurro che bacerà le ferite della povera, rincoglionita Principessa senza spina dorsale.

Ecco la pallida storiella che ancora vive nella testa incasinata di mia madre, ora fiacca, ora energica, ora stanca, ora piena d’ira che mai, mai una volta è stata indirizzata a lui, ma sempre a me, alle mie braccia, alla mia pancia, alla mia faccia.

Porto segni addosso che tracceranno nell’eternità la sua vergogna, la vergogna di una donna senza dignità, senza personalità, senza quell’amor proprio spicciolo, mero, in dotazione dalla nascita persino al più stupido, che ti spinge a correre se qualcuno minaccia la tua vita.

Non a piegarti, non ad abbassare la testa, non a singhiozzare biascicando un povero “ti amo”. A correre.

Ed è questo che farò, correrò via.

Non rispondo al saluto di quel patetico ometto che spera di minacciarmi con la sua imponenza fisica; nessun muscolo compenserà la devastazione della sua umanità. Nessuna abilità sarà in grado di porre rimedio alla sua bassezza.

Se si scusasse da qui alla fine del mondo, sarebbe comunque troppo poco. Le parole non arrivano dove lui è riuscito a ferirmi. Prima di affondarvi, perdono il loro significato in quel lungo viaggio nell’oblio.

Non mi fa più alcun effetto: è come se la sua presenza fosse occultata nel mio campo visivo da tutto l’odio amaro che provo nei suoi confronti.

Mio padre, se proprio si vuol commettere l’abominio di definirlo tale, ha per me un certo riguardo, almeno da sobrio, almeno di giorno. Come se avesse il bisogno di sentire la coscienza a posto salutandomi o chiedendomi come va.

Godo della consapevolezza di irritarlo con il mio silenzio. Alzo i miei muri e lo taglio fuori; aver cominciato a farlo mi è costato qualche ceffone e qualche spintone, qualche graffio e qualche insulto, ma preferisco che mi rompa un osso o mi faccia sanguinare la testa piuttosto di fingere, come fa mia madre.

Lei incanala contro di me tutte le sue emozioni più oscure e poi gli stira le camice, lo bacia quando torna da lavoro e gli ronza intorno come l’ultima delle puttane.

Mi detesta, per questo comportamento. Mi sgrida, mi implora di smettere, mi dice che non capisco.

Ormai le sue richieste mi fanno ridere. Attendo che mi afferri i capelli e faccia la sua scenata, poi mi dileguo e la cancello dalla mia testa.

La scuola è un mondo parallelo che mi permette di evadere.

Studio, leggo, apprendo di molteplici realtà differenti che mi offrono su un piatto d’argento prospettive migliori, quelle che avevo perso.

I miei genitori, per tornare all’uso di termini impropri, pensano che io faccia parte di un non so quale gruppo di studio e per questo torno a casa solo per l’ora di cena.

Beffarli così facilmente non è che la parte migliore di tutta la situazione.

La verità è che all’inizio restavo in giro per la città a bighellonare, in un parco con un libro o in un bar a ristorarmi del calore, del vocio, del colore delle esistenze altrui.

Poi, l’idea. La via di salvezza.

I soldi.

Ho distribuito volantini, portato a spasso cani e svolto commissioni per nonnine con l’artrite. Qualcuno in questo quartiere ha imparato a conoscermi e a fidarsi di me.

Una minorenne senza referenze e senza un genitore alle spalle all’inizio destava sospetti, ma un primo simpatico e pittoresco signore mi ha dato una possibilità, forse leggendo in me un chissà cosa della sua giovinezza.

Mi ha spedito a zonzo a distribuire i volantini della sua trattoria e il resto è venuto da sé.

Ho ricevuto più chance da chi aveva il diritto di negarmele, che da chi si presumeva camminasse al mio fianco e mi aiutasse.

La famiglia non è scontata. La famiglia non è dovuta.

E’ una fortuna. E’ un lusso.

E non lo si capisce, perché la si pretende. Si dovrebbe avere il diritto di averla e invece no, no, lasciatevelo dire da me, dal basso del mio nido fatto di rovi di spine, lasciate che vi suggerisca la verità: se davvero avete una famiglia, baciate la terra su cui cammina, perché è un dono, uno di quei miracoli verso cui la gente si definisce scettica.

 

Preparo il caffè, glielo verso bollente e senza zucchero in una tazzina, gli imburro il pane e mi defilo. Intravedo mia madre sprimacciare i cuscini nella loro camera da letto.

E’ il momento.

Alla luce del giorno, senza paura. Paura, è quella che ho lasciato tra le lenzuola umide di pianto, è quella che ho sepolto nel momento in cui ho capito che la mia vita vale più di ciò che mi è stato fatto.

Corro in camera mia, infilo la mano sotto il letto e tiro fuori un borsone. Pronto. Dentro giacciono ben piegati i miei pochi vestiti, i libri e qualche piccolo oggetto.

Nella tasca laterale, un coltello a serramanico.

Sul fondo, i miei soldi. Abbastanza.

Non tanti, perché non bastano mai, ma decisamente sufficienti a voltare le spalle a questo schifo. Certo, sto correndo un rischio, un passo dieci volte più lungo della mia gamba magra e sfregiata.

Ma sono pronta.

Sono donna, ora.

Non puoi fermarmi l’eventualità di cadere, non possono spaventarmi gli ostacoli e le difficoltà che già vedo delinearsi chiaramente all’orizzonte.

Ce ne saranno e mi costeranno fatica.

Mi ripagherà la sera la soddisfazione di non essermi abbandonata; mi cullerà la notte l’amore per me stessa e per la mia vita, mio inviolabile e intoccabile tesoro. Disinfetterà le mie ferite il caldo sapore della dignità, della forza, dello spirito di chi lotta.

Io lotto, io sono una guerriera.

E questo mi rende degna di quelle che, come me, hanno attraversato il dolore, la stanchezza, l’incompletezza, la confusione, la precarietà. Quelle che, come me, hanno dovuto scegliersi, smettendo di aspettare che lo facessero altri per loro, e sono diventate protagoniste brillanti di altrettante vite meravigliose.

Lego i capelli, getto la borsa in spalla e esco gridando: “ciao”.

“Ciao”. Solo “ciao”, esatto.

Gli sfuggo così, sotto il naso.

E la libertà mi rende bellissima.