SASSI DI PATATE

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Mia nonna si chiamava Carmelina e tutti i giorni andava al campo a raccogliere da mangiare. E raccoglieva patate, perché nel campo c’erano solo patate. Mio nonno, Mimino, diceva che nel campo c’erano troppi sassi, ma che sassi e patate andavano d’accordo e quindi quelle piantava, quelle mia nonna raccoglieva e quelle, ogni sera, noi ci mangiavamo. Però a cena, dovevamo fare attenzione, perché mia nonna non ci vedeva tanto bene e aveva gli occhi offuscati dalla cataratta e  ogni tanto, invece di raccogliere una patata, raccoglieva un sasso e lo cucinava. Per questo motivo a cena ogni volta che la nonna mestolava nel piatto e sentivamo ”tan”, sapevamo che nel piatto non aveva messo solo patate ma anche qualche sasso e noi picciriddi, sentendo quel “tan”, ci ammazzavamo dalle risate.

Mio nonno era vecchio, era talmente vecchio che aveva una gamba di qua e una gamba di là e tutti in paese lo chiamavano “lu zuppo”. Ma a mio nonno, quel soprannome, non piaceva  e quando dal campo passavano le persone che gli gridavano “lu zuppo! lu zuppo!” lui dal campo gli tirava le pietre, ma visto che anche mio nonno non ci vedeva tanto bene, spesso gli tirava dietro qualche patata. I cristiani, allora, ricevendo addosso le patate se le infilavano velocemente in tasca e scappando gridavano soddisfatti del bottino: “ Grazie Mimino u zuppo! Grazie!” e se ne andavano ridendo.

Mio nonno era vecchio, talmente vecchio che ha fatto addirittura la prima guerra. Un giorno se ne stava al campo quando arrivò suo padre buonanima, Mimino pure lui. Quel giorno gridava a mio nonno “Mimino, Mimino… corri, Mimì!”. Mio nonno credendo che fosse accaduto qualcosa alla madre corse più veloce che poteva, anche se in realtà non poteva correre perché era zoppo.

–       Che c’è papà?

–       C’è che sei stato chiamato!

–       Ma dove?

–       Sei stato chiamato in guerra!

–       Ma come? Sono zoppo! – gli rispose mio nonno.

Allora suo padre gli disse – Mimì la vedi questa pietra?

–       Sì

–       La vedi questa patata?

–       Sì.

–       Tra pietra e patata cosa scegli di essere?

–        Una patata! – disse mio nonno

–       Bravo! Ma in guerra pietre e patate servono tutte e due, perché con le patate tu ti sfami e con le pietre tu ti difendi e tu Mimino, figlio mio zuppo, non sei solo una patata tu sei soprattutto una pietra, quindi vai in guerra!

E Mimino, mio nonno, “lu zuppo” partì e si fece tutta la guerra in trincea a scavare la terra per nascondersi sottoterra come una patata. Mio nonno mi disse che patate anche in guerra gli toccava di mangiare, ma che a lui non gli dispiaceva perché mangiando patate gli sembrava di stare più vicino a casa e al suo campo di sassi e patate. Mio nonno mi disse che in tasca si teneva sempre i una patata e la lasciava lì per giorni, settimane e pure mesi. Mi disse che le patate germogliavano in tasca come ad allungare le braccia per tornare alla loro terra. Lui tornò, più zoppo di prima, perché gli spararono ad una gamba e quando tornò mia nonna l’abbracciò piangendo e lo strinse forte. Dopo aver salutato l’amata, mio nonno iniziò a camminare verso il campo di sassi. Arrivato vide che nel campo, i sassi, si erano moltiplicati, sembravano raddoppiati, centuplicati. Mio nonno allora si infilò una mano in tasca e prese una di quelle patate con il germoglio, una delle patate della trincea, la portò alla bocca e dopo averla baciata la piantò sottoterra. Quella fu la prima di tante patate che noi picciriddi, la sera, stando attenti al “tan”, ci mangiavamo..

Quando il nonno morì, morì veloce, morì talmente veloce che quando mi gridarono: “curri, curri che il nonno stà male!” il nonno era già morto. Se ne andò così via, in un istante, nella velocità di un curri, curri e non riuscii nemmeno a salutarlo. Mio nonno morì nel suo campo tra i sassi e le patate, dissero che lo trovarono a pancia all’aria boccheggiando come un pesce in un fiume in secca. Mia madre mi raccontò che prima di sospirare le strinse la mano dicendogli “bacia Carmelina”. Mia madre gli rispose “la baci tu a mammà quando torniamo a casa” e mio nonno gli strinse forte la mano ribadendo con rabbia “ti dissi, bacia Carmelina”. L’amore dei miei nonni era grande, era talmente grande che andava al di là delle parole dette e non dette, al di là delle azioni fatte o non fatte. Un amore di altri tempi, fatto di doveri da compiere, di sacrifici da fare in nome di una promessa fatta davanti a Dio. “bacia Carmelina” disse e fu lì che mia madre grido curri, curri e quando correndo arrivai, mio nonno era già partito. Ricordo che aveva la faccia stanca e stringeva nelle mani tre patate, le ultime tre patate raccolte.  Il giorno del funerale di mio nonno era un giorno bellissimo, c’era un sole che spaccava le pietre. Al funerale eravamo in sette, ma siccome sette persone per mia nonna erano poche, chiamò altre sette persone che io non avevo mai visto prima. Queste sette persone si disperavano e urlavano il nome di mio nonno. Quando però tornammo a casa, dopo aver messo il nonno sottoterra insieme alle ultime tre patate raccolte, quelle sette persone ricevettero  dei soldi da mia nonna e se ne andarono felici, mentre noi continuavamo a piangere. Fu allora che mia nonna iniziò a guardarmi con uno sguardo colmo di tristezza, era come se nei miei occhi cercasse gli occhi di suo marito che non avrebbe mai più rivisto se non attraverso i miei. Fu allora che mia sorella si avvicinò a mia madre e chiese: ”mamma ma il nonno quando torna?” e mia madre accarezzandola rispose “il nonno torna presto”. E aveva ragione perché il nonno non se ne andò mai. La nonna, che da quel giorno si vestì sempre di nero, apparecchiava tutti i giorni per lui e diceva che c’era anche se non c’era e che bisognava rispettare il suo desiderio d’apparecchiare. E che se qualcuno si sedeva al posto del nonno le abbuscava col battipanni. Ma la vita, alla morte del nonno era cambiata, la nonna passava le giornate al campo a lavorare e mia madre cercava di dissuaderla, che quello era un lavoro da masculi e che non gli faceva bene di fare tutto lei. Mia nonna era sorda a questi rimproveri. Tutte le mattine partiva con in mano il rosario e tutte le sere tornava sul carro recitando le preghiere. Mia nonna soffriva e soffrì talmente tanto che dopo pochi mesi morì. La ricordo ancora, sul letto di morte, tutta vestita di nero con i capelli bianchi e magra, magra che pareva una carrubba. Il giorno della sua morte intimorito mi avvicinai al letto e lei sottovoce mi disse “ricordati che anche se io non ci sarò più e nessuno apparecchia, al posto del nonno nessuno può sedersi, neppure tu”. Quando morì mia nonna era anche quello giorno un giorno bellissimo, c’era un sole che spaccava le pietre. Al funerale eravamo in sei, ma visto che sei persone erano poche mia madre chiamò altre sei persone che si disperarono e piansero e poi presi i soldi se ne andarono ridendo. Quel giorno tornati a casa mia sorella non fece domande, aveva capito che cos’era la morte. E che i morti non tornano. Fui io però a fare una domanda a mia madre; la guardai dritta negli occhi e gli dissi :”mamma, ma anche tu morirai?” e lei mi rispose sorridendo “certo figlio mio, ma il giorno che accadrà tu mi devi promettere una cosa”  io gli feci un cenno con il capo come per dire sì. Allora mia madre concluse “ figlio mio mi devi promettere che quando io morirò al mio funerale sarete in cinque e cinque soli e che tu, figlio mio, apparecchierai la tavola  e mangerai al mio posto”. Ed è per questo che oggi ho apparecchiato e mangerò patate e scrivo queste poche righe di ricordo e di storia dal posto che fu di mia madre e che ora è il mio di posto…