Se tu m’avessi amata

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Se tu m’avessi amata chissà che bella vita avremmo avuto.

T’avrei reso felice e adesso non saresti qui davanti a mia con quella faccia.

Sei venuto a trovarmi qua dinta perché sai che sto morendo? Che gesto gentile, tu che di gesti gentili con me non ne hai avuti mai.

Chi lo dice che sto morendo?

I midici?

Idioti.

Io so’ morta da tanto tempo.

M’hai accisa tu.

Tu che adesso sei qui con la faccia pentita.

Adesso che sei vecchio e malato pure tu, ti si risvegliano antichi pensieri, tenerezze negate…

Ti guardo.

Affondo i miei occhi nei tuoi, sono liquidi, occhi da vecchio … t’ho amato tanto e adesso mi sei accussì indifferente.

Sei cangiato, non tieni più quel tono autoritario che tanto mi spagnava, tieni pure la voce tremula e le frasi che dici sono piene di dolcezza e malinconia.

Ah, perché non eri vecchio da giovane, perché?

T’amavo così tanto… anche da morta t’amavo … ma adesso non più.

Eravamo così belli, così giovani … che peccato…che vita sprecata.

Pure ora sei bello, un bel vecchio, tieni ottant’anni pure tu, lo sai? Sei sempre alto, non ti sei incurvato, te mantieni bbono, eh?

Io t’aspettavo tutti i jorni, ti vidivo da lontano, così alto, spavaldo, con la bellezza dei tuoi sidici anni.

Non ti ci volle tanto a famme innamorare de tia, eri duce duce, chi sapiva che ti saresti trasformato. Chi sapiva?

Ero felice con tia, mi pareva di toccare u cielo con un dito.

Mi portavi in riva al mare e mi baciavi, mi baciavi e mi dicivi che avevo i capiddi di seta nivura e il cielo e u mare inta gli occhi.

E a me veniva un languore … un languore e lasciavo che le tue mani m’accarezzassero dovunque, mi perdevo nei tuoi occhi che brillavano come fussero diamanti, infilavo le mani dinta i capiddi tuoi e mi arrotolavo nelle dita i ricci biondi. Com’ero felice allora.

Ci siamo sposati … che pacci … due picciriddi come a noi che fanno subito un altro picciriddu.

La casa, è stata la casa che t’ha trasformato.

Ci pareva comodo andare ad abitare intu palazzo che aveva fatto to patre, un bell’appartamento con tante stanze, tutto per noi, due balconi proprio di faccia a u mare.

Ero stregata da quella casa, come me piaciva la notte ascoltare le onde e la matina presto vidire il sole che nasciva dal mare.

Era tutto quello che vuliva.

Chi stava meglio che nui?

Tu facivi l’operaio alla Montedison, tenevi u posto fisso e poi quando tornavi andavi pure a travagliare nella fabbrica di mattonelle di tuo padre.

Che volevamo di più, avevamo tutto, tutto.

Invece la casa, la casa ci ha diviso.

Sotto abitava tuo padre e tua madre e di fianco e sopra e sopra ancora le tue sorelle.

Non sono mai piaciuta alla famiglia tua.

Perché?

Nu saccio.

Io faciva tutto quello che m’accomandavano, aiutavo in negozio, ti faciva da mangiare bbono, ti tenevo pulito, puliziavo la casa, ma niente, mai abbastanza era.

Ero giovane, accussì giovane …

Quando rincasavi io lo vidiva se tu eri stato dai tuoi perché eri torvo.

Cominciasti a picchiarmi, mi picchiavi per niente …”non ha furnuto di fare il bucato”… botte …”è stata tutto il jorno inta u balcune a vidire il mare”… botte …”m’ha arrispunnuto”… botte.

Botte, botte, botte.

Avivo la pancia grossa ma non contava.

Botte, botte, botte.

Un jorno dissi mo’ basta e scappai da mammà.

Non m’ha voluto, mi prese per un braccio e mi riportò da te. Urlava in mezzo alla strada e io mi vergognavo, diceva che tu m’avivi da riprendiri che quella era casa mia e poi se ne andò.

Botte.

Pure quando partorii a Franceschino nostro mi massacrasti di botte, proprio quel giorno.

E quando la gente veniva a trovarmi io mi vergognavo, stavo lì col picciriddu attaccato al petto e la faccia gonfia.

T’avevo fatto un mascolo bello e sano e tu anziché mettermi sull’altare mi massacrasti.

Perché?

Nemmeno me lo arricordo.

E fujivo, fujivo sempre ma poi mi riportavano da te … quante volte, quante volte nu saccio.

Sette figli t’ho dato. Sette bellezze.

Le fimmene potivano fare l’attrici che la Lollobrigida era niente in confronto a loro.

Tutte di pelle bianca, coi capelli nivuri come la notte e gli occhi azzurri come u mare.

Da me avevano preso la billezza d’a faccia e da tia la billezza du corpo. Tutte con la coscia lunga e la vita stritta stritta.

E i mascoli? Le donne ne uscivano pazze dietro a loro da tanto belli che erano.

I figli che t’ho dato io nisciuna poteva darteli.

Belli, bravi, tutti sulla retta via.

Che vulivi di più?

E io?

Io che vita facivo?

Trista, accussì trista che un jorno mi misi inta capa che tu avissi un’altra donna e urlai e tu botte.

Io vuliva il tuo amore, solo il tuo amore e disperata scappai, mi calai dal balcone e caddi e mi ruppi un piede.

È paccia, è paccia!

Accusì urlavano i parenti tuoi e tu, pure tu, dicisti è paccia.

È pazza.

Se tu m’avessi amata, allora …

Mi portasti dal dottore.

Io tremavo vicino a te, che ci raccontasti? Io manco sentivo, io tremavo.

Disse: «manie di persecuzione» e mi fece ricoverare.

A Girifalco mi portasti.

Chi conosce Girifalco sa.

Aiuto, gridavo, aiutatemi, ma nisciuno, nisciuno mi aiutava.

Mammà era come a tia, io non lo sapiva ma era come a tia.

E u patre mio era buono come me.

Se vede che bisogna sposarsi accussì: uno buono e uno cattivo.

E i fratelli miei? Troppo giovani erano e quando crebbero, crebbero buoni pure loro.

E a me? Chi mi aiutava a mia?

Sula.

Sulo a Franceschino mio mi stava vicino, ma era giovane, così giovane, come poteva con tia?

Fosti crudele con lui perché mi difendeva, lo facisti sanguinare, quante volte?

No i figli miei non si toccano, picchia me, ma no loro, loro no.

Io ai figli miei li trattavo come principi e principesse, pure la colazione a letto ci portavo.

E Franceschino mio, sempre vicino mi stava, m’aiutava a fare la spisa, ci insegnavo a cucinare e pure a cucire.

I figli miei li ho chiamati come a tuo patre, a tua madre e alle sorelle tue, ma non se lo meritavano perché hanno rovinato la vita mia. E pure a te hanno fatto male che quando eri picciriddu tuo patre ti legava ad un albero e ti cinghiava.

Ma i figli miei no, tu non li hai da toccare.

E Girifalco?

Che ne sai tu della mia vita a Girifalco?

Delle urla, delle pillole, dei pianti, delle notti con gli occhi sbarrati dalla paura che mi facessero male.

E il terrore che mi prendeva i visceri quando mi facevano l’elettroshock.

Che ne sai tu?

No.

Non voglio ricordare.

Non voglio.

Quando ti chiamavano i midici, tu venivi a riprendermi.

Manco mi guardavi, ti dispiaciva riportarmi a casa, a me, a me che da mesi non vedevo i figli miei.

Ti disturbava anche solo guardarmi, io lo sapiva e a casa urlavi … urlavi sempre.

Mammà perché ti dondoli? Mammà parla, non fare accussì … ma a mia mi scendiva il buio dinta a capa.

Quand’ero a Girifalco vuliva venire a casa e a casa nun ci potiva stari.

Intanto i figli miei si crescevano senza di me.

Quelli piccoli manco sapivano com’ero prima … non lo sapivano.

Poi Franceschino mio se ne andò. Andò all’università, ma io lo sapiva che lui scappava da nuie, da tutta la miseria e le brutture de casa nostra.

Tornava poco.

Poi si sposò.

Vennero tutti e due a trovarmi a Girifalco.

Io vidi l’orrore dinta agli occhi d’a mogliera.

Guardava le reti, le dita che si aggrappavano a chilla prigione, tutti quegli uomini brutti con le teste rasate e i pigiami sporchi che urlavano e battevano la testa contro il muro.

Che vergogna.

Non vulivo che mi vedesse là dinta.

Lei capì e rimase sulla porta con la testa china mentre Franceschino mio m’abbracciava e mi diceva che mi portava via di lì.

Era o vero, mi portò via dall’inferno, mi portò dai dottori del nord che mi curarono meglio, poi mi riportò giù e mi fece separare da tia.

Le figlie non vulivano perché dicevano che ti saresti arrisposato.

Ma fece bbono Franceschino mio.

Poi successe che chiusero i manicomi.

E pure Girifalco, la vergogna nostra, non c’era più.

Andai a stare con Rita, suo marito era sempre via per lavoro e io con la pensione ci aiutavo a crescere i figli suoi, i nipoti nostri.

Sono stata bene con lei, finalmente serena.

Tu ti sei arrisposato ma a me non mi importava. Non mi importava più niente de tia.

Ma adesso che qua dentro passo infinite notti insonni io ci penso.

Ci penso a com’eravamo noi due.

Penso a chilla luce nei tuoi occhi come diamanti.

Penso ai tuoi ricci biondi e alla tua bocca che mi diciva cose amoruse.

Eravamo belli, accussi belli e nui credevamo che quell’incanto ci avrebbe accompagnato tutta la vita nostra.

Tutta la vita nostra.

La vita nostra … volata via in un soffio.

Son chisti i pensieri che mi tolgono il sonno perché … se tu m’avessi amata …

Non ho parlato con la bocca.

Tutta la vita mia te l’ho detta con gli occhi.

M’hai capito?

E adesso vavattine che so’ stanca.