TRANCI DI VITA

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Marco non conosce ancora il proprio nome quando per la prima volta viene accolto dal seno della madre e poggia la sua testolina sulla pelle calda, per poi strisciare con la guancia in cerca del capezzolo. Finalmente lo trova e l’istinto lo spinge a succhiare, mentre tiene chiusi gli occhi non ancora abituati alla luce del mondo. Il latte gli invade la bocca che fa così conoscenza con il suo sapore, dolce come la voce che accompagna la sua poppata con parole che Marco non può capire, ma di cui già avverte la tenerezza.

Per molto tempo il gusto del latte è l’unico ad essergli familiare, è quello che chiede a gran voce prorompendo in un pianto che si desta dai suoi istinti primari per smuovere gli animi e risvegliare gli assonnati genitori. È lui a dettare gli orari dei propri pasti, rispondendo ai pungoli della fame, e nulla lo acquieta se non quel latte che è stato il suo primo amico. Ma poi le settimane passano e di giorno in giorno scopre nuovi sapori, impara a riconoscere la differenza tra il dolce e il salato, esplora con la lingua le diverse sfumature di un mondo che appare sempre più vario.  Inizia a distinguere i gusti che gli piacciono da quelli che gli fanno storcere il naso, e così rifiuta categoricamente i broccoli, mentre batte le mani per l’eccitazione di fronte al formaggio.

Seduto nel seggiolone, Marco vede il cucchiaino volare verso la sua bocca come un aeroplanino, accompagnato dai versi di suo padre che tenta di trasformare ogni pasto in una grande avventura. Ogni volta che ingoia un boccone, i suoi genitori esplodono in esclamazioni di gioia, come tifosi allo stadio. La sua bocca è la caverna oscura dove tutti quei cibi scompaiono per sempre, e Marco si chiede dove vadano a finire, mentre assiste all’inspiegabile prodigio della propria crescita. Non può sapere che tutti quei sapori diventano parte di lui, andando a costituire i tasselli che compongono l’integrità del suo corpo; non può immaginare che quel latte ancora gli scorre nel sangue, e che quei broccoli gli vibrano di vita nelle cellule. E, anche quando lo saprà, stenterà a credere che quelle pappette e cremine si possano davvero trasformare in materia umana. Ma se lo dice papà, allora dev’essere vero.

 

 

Davide approfitta di un attimo di distrazione della professoressa per infilare la mano sotto il banco e riempirsi la bocca con una merendina, che poi mastica con la faccia rivolta verso il basso, sperando di non essere visto. Il gusto del pan di spagna e quello del cioccolato si mescolano sulla punta della lingua e Davide chiude gli occhi, godendosi il sapore zuccherino della trasgressione, mentre ancora una volta si chiede come possa sua madre definire “schifezze” quelle merendine che lui trova deliziose. Ha sempre le tasche dello zaino strabordanti di caramelle, cioccolatini e biscotti trafugati dalla dispensa ed è diventato ormai un esperto nel mentire quando sua madre gli chiede se è stato lui a fare incetta di dolciumi. Purtroppo, però, i brufoli che emergono sul suo viso come vulcani lo tradiscono e le sue bugie hanno vita breve, così come i barattoli di crema di nocciola che non durano mai a lungo, nonostante suo padre tenti di nasconderli dietro i pacchi di pasta. Sua madre marcia per casa furibonda, minacciando di non comprare più il cioccolato, ma Davide sa benissimo che non lo farà mai perché in fondo anche lei non potrebbe rinunciarvi.

Col passare degli anni, i furtarelli si fanno via via più rari, mentre più frequenti diventano le uscite con gli amici. Così nei pomeriggi d’estate Davide incontra i suoi compagni di scuola e, con la scusa di andare a prendere un gelato, passeggia con loro per le strade della città, raccontando episodi esilaranti delle sue vacanze, mentre nelle serate d’autunno ride insieme agli amici della squadra di basket, assaporando una pizza farcita con wurstel e patatine. Il suo primo bicchiere di vino lo fa sentire grande, e, mentre sul suo viso si fanno strada i segni dell’adolescenza, inizia a disdegnare l’aranciata e a preferire la birra, che gli offusca un po’ la mente e al contempo lo esalta, mentre sulla lingua sente ancora il sapore della trasgressione, che è mutato nel tempo, ma resta sempre inebriante.

 

 

Sofia afferra con una mano un tarallo dal sacchetto posto accanto a lei sulla scrivania, mentre con l’altra sottolinea una frase del libro di Letteratura Italiana che ha davanti agli occhi. È tutto il giorno che studia, china sui manuali dell’università, tentando di memorizzare quante più informazioni possibili prima di un esame che teme di non passare, e nella sua testa c’è una grande confusione di numeri e nomi, una matassa di nozioni che si fa via via più ingarbugliata mentre i minuti scorrono lenti, trascinandosi l’uno dietro l’altro con fatica. La noia e la stanchezza la costringono di tanto in tanto sbadigliare, la incoraggiano a prendersi una pausa e a gravitare inevitabilmente verso il frigorifero, fonte di ogni sua consolazione durante lo studio. Nel corso di una giornata mangia frutta, formaggi, arachidi e crostatine, rispondendo, più che alla fame, alla necessità di spezzare la monotonia di quelle lunghe ore trascorse a leggere e ripetere ad alta voce quello che riesce a ricordare. Ogni morso è accompagnato da un leggero senso di colpa, che prende vita sotto forma di una vocina che le martella in testa e le ricorda che non riuscirà mai a smaltire tutte le calorie che sta ingerendo, ma questa vocina è messa a tacere quando la forza di volontà di Sofia è vinta dalla consistenza e dal sapore del pecorino.

Nonostante il cibo sia per lei un pensiero fisso, al punto che ogni tanto teme che Dante le abbia già riservato un posto nel girone dei golosi, la sera quasi sempre si dimenticherebbe di cenare se non fosse per sua madre che le telefona e le ricorda di mangiare. Ma quando apre il frigorifero lo trova sempre troppo vuoto ed è con delusione che passa in rassegna la scatola di fagioli quasi finita, i pomodori un po’ ammaccati sparsi sul ripiano, i bocconcini di scamorza ancora chiusi nella loro confezione. Allora si ritrova a contare i giorni che mancano al suo ritorno a casa e inizia a stilare una lista di piatti che spera che sua madre le prepari per renderla felice durante il fine settimana passato con la famiglia. Sogna ad occhi aperti le lasagne, la carne alla pizzaiola, la torta agli amaretti che è la sua preferita da quando era bambina. Sentendo ormai l’acquolina in bocca, chiude il frigorifero e inizia a comporre un numero al telefono: ha deciso che, per questa sera, ordinerà la pizza.

 

 

Riccardo è tutto preso a leggere a un’importante email quando l’orologio digitale, confinato nell’angolo basso dello schermo, gli ricorda che è giunto il tempo della pausa pranzo. Si dice che mangerà non appena avrà finito di scrivere la risposta, ma ben presto si ritrova sommerso di richieste di approvazione di importanti documenti e il pranzo passa inevitabilmente in secondo piano. Tuttavia, trascorsi venti minuti, Riccardo non può più ignorare i morsi della fame, che si fanno sentire con sempre più insistenza.

Tira fuori dalla borsa una ciotola di plastica contenente un’abbondante porzione di parmigiana: è l’immancabile “schiscetta”, quella che si porta ogni giorno a lavoro da casa. Srotola il tovagliolo nel quale è avviluppata la forchetta e inizia a mangiare a grandi bocconi la parmigiana, rigorosamente fredda, perché il viaggio dal suo ufficio alla sala mensa con il forno a microonde gli pare un inutile spreco di tempo ora che ha tutto quel lavoro di cui occuparsi. Nonostante la temperatura non ideale, la parmigiana è buona, forse addirittura migliore di quanto non lo fosse la sera prima, quando sua moglie ne aveva preparato un’enorme teglia e ne aveva servito una porzione ciascuno mettendo prima da parte, con previdenza, un ampio quadrato da destinare al pranzo del marito per il giorno successivo.

Mentre si ingozza scavando con la forchetta nella ciotola, un boccone di parmigiana gli cade sulla tastiera, e Riccardo impreca e tenta di ovviare al danno con il tovagliolo, mentre sul computer appaiono sempre più email che lo spronano a tornare a lavorare. Le dita ricominciano a correre rapidamente sulla tastiera, e Riccardo non si accorge di aver dimenticato nella borsa una mela, la quale si dovrebbe ormai rassegnare ad essere riportata a casa, insieme alla forchetta e alla ciotola da lavare.

 

 

Latte. Uova. Pasta. Pesce. Farina.

Amelia ripete mentalmente la lista della spesa, maledicendosi per aver dimenticato a casa, come sempre, il foglietto sul quale si era appuntata tutto ciò che doveva acquistare. Cammina tra gli scaffali del supermercato, spingendo il carrello, muovendosi da un reparto all’altro con la sicurezza di chi conosce quel luogo bene quanto la propria casa. Controlla i prezzi, dà un’occhiata alle scadenze, calcola quanto latte deve comprare, quanta frutta può permettersi di prendere per essere sicura che non vada a male. Quando poi ha superato la cassa, dopo aver pagato, torna a casa, trascinando in ascensore sacchetti che paiono macigni, e poi è di nuovo fuori, pronta a saltare da un supermercato all’altro per andare a caccia di offerte, consultando i volantini come se fossero mappe del tesoro.

La sua mente è sempre in frenetica attività, tenuta in moto da una rapida colazione al mattino e da un misero yogurt ad ora di pranzo. Ma è a cena che la sua creatività si deve scatenare per ideare un pasto che soddisfi le richieste di tutti e che sia al contempo sano, gustoso e veloce da preparare. Nonostante i suoi sforzi, tuttavia, sembra incapace di accontentare l’intera famiglia: i figli si lamentano perché è la terza volta che c’è l’insalata quella settimana – ma d’altronde bisogna finire il cespo – mentre lei si preoccupa perché forse stanno mangiando troppa carne e non abbastanza legumi. Le cene diventano per lei uno stress che si aggiunge a quello accumulato durante la giornata, ma per fortuna ogni tanto suo marito si sostituisce a lei ai fornelli e riesce a sorprenderla con qualche piatto semplice ma sfizioso che riesce a fare contenti tutti e che non scarseggia di certo in fantasia, come quella volta che ha preparato una frittata mescolando alle uova tutto quello che gli capitava sotto il naso nel frigorifero, e ne è uscito fuori un piatto che da allora è conosciuto in famiglia con il nome di “pasticcio di papà”.

 

 

Lorenzo dispone con cura le fette di prosciutto crudo lungo il margine sinistro del grande piatto ovale, per poi deporre due mozzarelle al centro della composizione contornata da foglie di lattuga, ricottine e spicchi di tramezzini rivestiti di salse, salumi ed olive trafitte da stuzzicadenti. Si attarda un momento a contemplare la sua creazione, poi passa al piatto successivo e ripete i medesimi gesti, aggiustando di tanto in tanto la posizione di una tartina per migliorare il risultato finale. Con la stessa dedizione si assicura che la pasta sia cotta al punto giusto prima di scolarla e che il pollo sia tenero all’interno e croccante all’esterno prima di servirlo con un contorno di patate al forno cosparse di rosmarino. Non permette che nessun antipasto, primo o secondo lasci la sua cucina senza essersi prima assicurato che esso sia al contempo bello da vedere e buono da mangiare, come ogni opera d’alta cucina che si rispetti.

A ciascuno dei suoi piatti dona un nome particolare, che possa stuzzicare la curiosità di chiunque legga il menù, e così le composizioni di frutta diventano “mosaici”, gli assortimenti di rustici “fantasie”, le verdure di diversi colori vanno a formare un arcobaleno con sfumature che tendono al verde e all’arancione e che rendono più vivaci i secondi di carne e di pesce che si susseguono uno dopo l’altro davanti ai commensali, i quali si ripromettono che non toccheranno più cibo quel giorno per poi inevitabilmente cedere alle tentazioni dei delicati profumi che si innalzano dai loro piatti.

Talvolta, quando vede i camerieri portare via le sue belle composizioni, soffre al pensiero che esse saranno presto intaccate da forchette e coltelli, ma poi ricorda a se stesso che i suoi piatti sono opere d’arte che hanno una doppia vita: prima meravigliano con la loro bellezza, conquistando gli occhi con l’armonia dei colori e l’equilibrio delle forme, poi sorprendono con il loro sapore talvolta delicato, talvolta deciso, ma che è sempre una gioia per il palato. Ed è la soddisfazione a saziarlo quando vede ritornare, impilati gli uni sugli altri, i piatti vuoti, ripuliti fino a quasi non lasciare alcuna traccia di quello che era stato il loro contenuto, se non qualche ombra di salsa o fogliolina di insalata.

 

 

Teresa è seduta al tavolo della sua cucina immersa nel silenzio e osserva il piatto in attesa di fronte a lei. Inizia a mangiare lentamente, con la dentiera che le balla appena e la costringe ad affrontare ogni boccone con fatica, ma questo non le dispiace, poiché le offre l’occasione di soffermarsi su sapori che le riportano alla mente ricordi recuperabili solo attraverso le sensazioni. Ogni morso le dà una spinta lungo lo scivolo della memoria, richiamando momenti lontani che sembrano però ancora vivi, come se appartenessero al presente. E così quando beve del latte si sente ancora una bambina con il muso chiazzato di bianco, mentre quando assaggia una pesca ritorna ai giorni in cui si alzava in punta di piedi per rubare la frutta dagli alberi dell’orto del nonno o staccava le more dai cespugli, per ritrovarsi poi con le braccia rigate dalle spine e le labbra tinteggiate di un rosso violaceo. Il cioccolato, ora consumato in piccoli quadratini da succhiare piano, ha il sapore dei giorni di festa, il pane quello delle lunghe ore di lavoro nei campi. L’odore dei pomodori la riporta alle mattinate d’estate passate a fare la salsa, quello dei biscotti alle sere d’inverno trascorse a sfornare dolciumi, e, se si concede qualcosa di sfizioso, le pare di sentirsi ancora una regina, come quando durante un ricevimento di matrimonio vedeva passarsi sotto gli occhi piatti che avrebbe potuto solo sognare di assaporare da bambina. Eppure una parte di lei preferisce la sobrietà della sua cucina al fasto delle grandi sale, il sapore essenziale dei suoi piatti a quello ricercato delle ricette di illustri chef, gli intimi pranzi di Natale alle cene eleganti delle grandi occasioni. Ama impastare i fusilli con le proprie mani, modellare le polpette da immergere nel sugo, per poi osservare con un sorriso compiaciuto come tutti i parenti apprezzino il pasto e ridere un poco quando suo nipote, cuoco di professione, si avventa con scarsa eleganza sulla porchetta. E anche se talvolta la carne si bruciacchia in superficie o la pasta manca di sale, sa che la gioia di ritrovarsi tutti insieme attorno alla tavola renderà indulgenti anche i palati più raffinati e saprà restituire sapore anche ai piatti più insipidi.