COLOGNO
30 ANNI PER GIULIO FACCHI. E’ LA RICHIESTA DEL PM MILITA NEL PROCESSO SULL’ ECOMAFIA IN CAMPANIA

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Disastro ambientale, traffico illecito di rifiuti e collusione con la criminalità organizzata, nello specifico, rapporti stretti con il clan camorrista dei Casalesi. Sono questi i capi d’accusa per i quali il PM dell’ antimafia di Napoli Alessandro Milita, ha chiesto pene per un totale di 280 anni ai principali imputati del più grande processo sull’ ecomafia in Campania. Tra di loro, oltre al potente broker Cipriano Chianese, e all’imprenditore Gaetano Cerci riconducibile alla loggia massonica P2, anche il colognese Giulio Facchi (30 anni chiesti per lui), nominato nel 1999 dall’allora presidente della Regione Campania, Andrea Losco, in accordo con l’ex Ministro all’ Ambiente Edo Ronchi, sub commissario all’emergenza rifiuti in Campania, a seguito di una virtuosa esperienza come assessore all’Ambiente (nei Verdi) alla Provincia di Milano.

Il processo
Resit è il nome del procedimento penale in corso da 13 anni, ed è anche il nome della discarica alla periferia di Giuliano (Napoli), in piena Terra dei Fuochi, al centro dell’inchiesta attualmente nelle mani del pubblico ministero Milita, che ha delineato un quadro di relazioni illegali tra gli imputati, mirate a consentire ad imprenditori (molti del Nord Italia) di smaltire i propri rifiuti di produzione nelle discariche del napoletano, trasformandole in “bombe ecologiche” pronte ad esplodere con gravi conseguenze sulla salute dei residenti, e tutto a vantaggio della camorra, che in quegli impianti già smaltiva rifiuti tossici da tempo (la Procura di Napoli fa risalire l’inizio degli illeciti sulla gestione rifiuti alla fine degli anni “80, con ruoli già centrali di Chianese e Cerci con Francesco Bidognetti, tra i potenti del clan dei Casalesi).

Nel corso del processo, per Giulio Facchi furono chiesti gli arresti per ben cinque volte, e tutte e cinque le volte furono respinti sia dal Gip, che dal Tribunale del Riesame che dalla Cassazione, che invece mandarono dietro le sbarre l’avvocato e broker Chianese, colui che è considerato ad oggi la mente criminale dietro l’affare ecomafia, e il quale secondo l’accusa, in una prima fase sarebbe stato agevolato da Facchi durante il suo ruolo di sub commissario ai rifiuti, ottenendo autorizzazioni relative ad impianti di smaltimento traendone vantaggi economici. Ma il nome di Facchi, fu accostato nel tempo anche all’ex parlamentare Nicola Cosentino colluso con la camorra, al boss dei Casalesi Bidognetti, nonché a Licio Gelli “maestro venerabile” della p2, tutti soggetti con i quali, sempre secondo l’accusa, il colognese avrebbe allacciato relazioni mirate a favorire ora l’uno, ora l’altro, in contesti di illegalità.

Le parole di Giulio Facchi
La richiesta a 30anni di carcere arriva quindi come un altro macigno su Giulio Facchi, che in 13 anni è stato il centro di accuse ogni volta differenti: “Successivamente alla prima richiesta le cose cambiarono: Chianese, di nuovo arrestato e posto ai domiciliari, non era più il mio complice, ma operava nei confronti miei un’estorsione per cui divenni contemporaneamente indagato ma anche parte offesa, e furono riproposti i miei arresti perché avevo favorito il mio estorsore”.

Così ha raccontato l’uomo affidando la sua ricostruzione ad un gruppo Facebook appena sorto e relativo alla vicenda, e ha poi proseguito: “Nel terzo atto delle accuse mosse vi fu la richiesta di arresto insieme a Cosentino, con cui, secondo il PM, avevo stretto un accordo strategico finalizzato a far “saltare” l’appalto con Impregilo per aprire la strada alla camorra“. Anche in questo caso la richiesta di arresto fu bocciata, “ma -prosegue Facchi- con uno scenario che cambia ancora: non più estorto ma schierato in un progetto Facchi-Cosentino che entrava in conflitto con Chianese, e quindi i “favori” allo stesso erano finalizzati a merce di scambio per un trattato di pace tra i 2 soggetti. Anche qui poi le cose cambiarono e da complice di Cosentino divenni teste di accusa nel suo processo“.

Ed ecco l’ultimo atto prima della richiesta pervenuta in questi giorni che chiede 30 anni di reclusione: “Poi si inserisce la fase dei “pentiti” e allora eccomi trasformato in partecipante a un banchetto in cui Chianese, Bidognetti, Gelli e io programmavamo lo smaltimento dei rifiuti illegale nella terra dei fuochi. Peccato che il boss Bidognetti era in carcere da tempo quando io arrivai in Campania la prima volta. Ancora richieste respinte ma ogni volta finivo sui giornali e subivo gravissimi danni da tutta questa azione davvero esagerata. Incredibile, cambiavano le ipotesi di accusa ma restava un unico punto fermo: Facchi colpevole comunque, ogni volta cambiavano la natura, le ragioni e i presupposti del mio coinvolgimento ma il punto fermo restava: dovevo comunque essere arrestato“.

Esponenti politici in difesa di Facchi
Luigi Manconi, ex Portavoce nazionale dei Verdi, Gianni Francesco Mattioli, ex Ministro delle Politiche Comunitarie, Edo Ronchi, ex Ministro dell’Ambiente, e Massimo Scalia, ex Presidente Commissione bicamerale d’Inchiesta su ciclo dei rifiuti, hanno fatto pervenire ai giornali una lettera particolarmente accorata in sostegno dell’ex sub commissario all’emergenza rifiuti, nella quale si dicono “Sbalorditi, e tuttora increduli, per le richieste di pena della pubblica accusa nei confronti di Giulio Facchi […] Non solo per l’incredibile entità della pena richiesta dalla Procura -30 anni- ma per il personaggio che deriverebbe dal quadro accusatorio […] Quel personaggio camorrista e devastatore non è lui, non può essere lui“.

Ma la parte più importante della missiva pubblica, riporta una sorta di testimonianza dei quattro esponenti politici che ai tempi rivestivano ruoli chiave all’interno delle istituzioni e nella lotta alla camorra in Campania, e che mettono nero su bianco: “Nei rispettivi ruoli non abbiamo mai avuto notizie, né segnalazioni , né voci relative a rapporti intrattenuti dal subcommissario ai rifiuti Giulio Facchi con la camorra: se vi fossero stati tali rapporti almeno qualche sospetto lo avrebbero suscitato. Non stiamo sostenendo che non vi potesse essere qualche ditta che si occupava dell’emergenza rifiuti in Campania che potesse essere infiltrata o collusa con la camorra (…). Quello di cui siamo convinti è che Giulio Facchi per storia personale, ambiente di provenienza, caratteristiche culturali e morali e per tutto ciò che sapevamo di lui, non era certo né un camorrista, né una persona che potesse cercare o intrattenere rapporti con camorristi”.

Nel 2000 Antonio Bassolino divenne Presidente della Regione Campania, e quindi automaticamente commissario di governo sull’emergenza rifiuti. Proprio lui, appreso della richiesta di arresti per Facchi, l’ha contattato ribadendogli di “avere fiducia nella giustizia“, una giustizia che però, secondo Facchi, potrebbe essere ostaggio di pressioni non indifferenti, e che in questi 13 anni l’ha condotto ad una situazione personale insostenibile: “ognuna di queste richieste, pur se respinte, hanno sempre più contribuito a distruggere la mia vita -scrive Facchi a Bassolino– Piano piano ho perso amici, lavoro, soldi, affetti e altro […] Ma il punto non è nemmeno piangere sulle mie disgrazie, le avevo messe in conto pur se non in questa misura. L’atrocità sta nell’isolamento, nel sentirsi uno che ha una brutta malattia infettiva da cui gli altri vogliono stare lontani”. 

Sentenza a giugno
Il prossimo mese è attesa la sentenza, e se Giulio Facchi fosse giudicato colpevole, sarebbe comunque l’unico esponente politico a pagare. Con lui infatti, attendono il verdetto Chianese (avvocato e broker), Cerci (imprenditore), ma anche Elio Roma, e i fratelli Generoso e Raffaele Roma, tutti e tre imprenditori nel settore rifiuti.

Nel frattempo Facchi e la sua famiglia stanno preparando una serata pubblica durante la quale Giulio racconterà le sfaccettature e le pieghe complesse di una vicenda che racontare in poche righe di una articolo, seppur prolisso, è comunque riduttivo.